Berlinguer400“Penso che la sua storia segua quella della nostra generazione, una storia fatta di prese di coscienza della realtà terribile e dei costi del processo storico, e insieme del rifiuto di ogni mitologia. In questo senso mi pare che quanto Berlinguer ha fatto per dare al Partito Comunista una coscienza non mitologica del modo in cui si può influire sulla realtà italiana, sia esemplare”. Così Italo Calvino ricordava tra le colonne de l’Unità il segretario del Pci pochi giorni dopo la sua morte in quel giugno di trent’anni fa. Non so come lo abbia ricordato Walter Veltroni nel suo film, non l’ho visto anche se ammetto di essere curioso di farlo, ma ho letto con più o meno piacere qua e là il dibattito che la pellicola ha intavolato sulla figura di Berlinguer. Penso, però, che la mia di generazione, a differenza di quella di Calvino, manchi di una figura di riferimento se non pari perlomeno paragonabile a quella di Berlinguer. Non tanto per il credo politico quanto per il fare politico. Per chi, come me, nel 1984 era troppo piccolo per ricordare ed oggi troppo grande per dimenticare, Berlinguer è un qualcosa, non tanto un qualcuno, che manca e invece occorrerebbe. Siamo figli di quel rifiuto della mitologia e, al contempo, siamo cresciuti con il falso mito del potere. E siamo vittime e complici di questo. Vittime di una politica urlata, degli slogan che diventano claim, dell’immagine sopra i contenuti, di queste facce truccate, della denuncia a tutti i costi e della trasparenza che diventa invisibilità. Complici di tutte le frasi senza senso e delle promesse, degli interessi personali, della retorica e del talmente colmo da diventare vuoto. Vittime del cinismo e complici della perdita di collettivismo. Siamo orfani, in buona sostanza, di Berlinguer.

Chiamatemi nostalgico e anacronistico, ve ne offro qui tutta l’opportunità, ma a me quella gente che da ogni parte d’Italia veniva a Roma, il 13 giugno di 30 anni fa, per un saluto e per un sentire comune, per la voglia di essere prima ancora di partecipare, mi manca. E mi mancano tutte quelle persone che stringevano di rabbia un fazzoletto in mano e con l’altra sventolavano la prima pagina di un giornale con vergato ADDIO. Ho ben impresse quelle immagini, quegli occhi gonfi di lacrime, quel rispetto, quei silenzi, quel Presidente della Repubblica piegato su una bara. E quelle immagini, sfuocate e grigiastre hanno più colore, per paradosso, del patinato televisivo di oggi. A me mancano, e trovo rabbia perché non c’ero.

Solo per un semplice motivo: quelle erano le immagini di una coesione e di un sentimento popolare che la mia, di generazione, non ha più vissuto. E quel giorno a Roma, seppur nel triste addio, tante generazioni insieme, dai bambini agli anziani, riuscivano con la speranza dettata da quella coesione e da quel sentimento popolare, a guardare ad orizzonti lontani. La mia, di generazione, guarda al passato perché il futuro si ferma al domani.

Due anni prima di quel palco di Padova Berlinguer in un’intervista concessa ad Alberto Moravia per la rivista Nuovi Argomenti rispose al giornalista scrittore che “chi si imbarca nel proposito di proporre o inseguire ‘modelli’ in politica è condannato agli errori più inescusabili oltre che alle delusioni più cocenti”. Ben venga, però, in politica e nella vita di tutti i giorni, chi ha perlomeno il coraggio di ricordare, onorare e imitare con il giusto rispetto il modello Berlinguer. Gli errori in quel caso diverranno scusabili.

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