Gianni Cuperlo è attualmente presidente del Centro Studi Pd. Nel 2013 aveva sfidato Matteo Renzi alle primarie per la segreteria nazionale, perdendole. Renzi gli offrì quindi di fare il presidente del Partito democratico, incarico ricoperto per un solo mese, in quando si dimise a seguito di un contrasto con la linea del segretario nazionale sulla legge elettorale. Posizionatosi nella minoranza del partito si scontra con Renzi su tutta la linea del governo da questi guidato: jobs act, buona scuola, riforma costituzionale. Alle elezioni del 4 marzo 2018 era stato inizialmente indicato come candidato alla Camera nel collegio uninominale di Sassuolo, rinunciandovi dopo aver verificato che in Emilia Romagna vi erano numerosi candidati catapultati da Roma senza adeguata consultazione della base del partito locale. Lascia quindi il Parlamento. Agenziaimpress.it lo ha intervistato a Chianciano Terme dove è stato invitato alla settantesima festa dell’Unità per parlare del suo ultimo libro “In viaggio”, edizioni Rosso e Nero.

Il congresso può essere determinante per rilanciare le sorti del Partito democratico?

«Siamo di fronte ad un passaggio della storia ed un partito come il nostro non può cavarsela semplicemente cambiando timoniere. Abbiamo bisogno di qualcosa di più e di diverso. Abbiamo bisogno di organizzare un pensiero, una cultura politica una identità. Di fronte alla enormità dei problemi che abbiamo davanti non possiamo limitarci semplicemente a fare un elenco più o meno lungo di candidati e candidate, con una centralità assoluta sui profili, accantonando la necessità di una piattaforma politica, un documento politico. Bisognerebbe invece avere l’umiltà di fermare il processo del congresso per provare tutti assieme ad affrontare una discussione su un documento dedicando un mese, un mese e mezzo, a riorganizzare il manifesto comunitario del partito, chiederci chi e siamo cosa vogliamo rappresentare, quali interessi, quali sono le priorità che vogliamo aggredire. Si arriverebbe alle primarie per scegliere la figura, l’interprete più adatto a rappresentare quel progetto politico, aggregando più possibile le forze del nuovo progetto».

Decidere quale natura quindi ?

«Se risolviamo tutto in una conta con gli eserciti arruolati secondo una logica di chi sta con chi continueranno le divisioni, discutiamo del leader migliore senza capire che il nostro destino dipende dalla nostra natura. Se ad un ragazzo di venti anni che varca la soglia di un circolo del nostro partito non chiediamo “cosa pensi”, o “perché sei qui”, e la prima domanda che gli viene rivolta è “con chi stai?” Quel ragazzo di venti anni forse torna la settimana dopo, ma già dopo due settimane faticherà terribilmente a stare con noi. La domanda non è con chi stai, ma dove stiamo andando assieme. La sinistra ha bisogno di queste cose. Le grandi crisi come le grandi sconfitte si affrontano sempre mettendo in campo una proposta radicalmente nuova e alternativa».

Il 4 marzo più che una vittoria dei sovranisti e dei pentastellati sembra essere stata una sconfitta senza mezzi termini della sinistra.

«In tempi recenti le elezioni le abbiamo a volte vinte e a volte perse, ma il 4 marzo di quest’anno non abbiamo solo perso, la sinistra nel suo complesso ha subito la peggiore sconfitta della storia repubblicana. Nei settant’anni precedenti una sconfitta del genere non l’abbiamo mai vista, se non nel 1924».

Cioè vuole dire legge Acerbo e affermazione del fascio. Ma in questo caso si è votato con una legge elettorale che il Pd ha fortemente voluto, è quindi una sconfitta figlia di una strategia politica sbagliata?

«Non basta un alibi per spiegare ciò che è accaduto. Sarebbe un grave errore di analisi. In Europa è accaduto alla Germania vedere l’Spd fermarsi al 20,5% e l’avanzata dei nazionalisti attestarsi al 16%. In Francia i socialisti hanno fatto registrare un risultato a dir poco umiliante con il 6%. La storia, soprattutto in conseguenza di questi ultimi 10 anni di crisi economica, ha innescato processi emotivi nella gente rispetto ai quali siamo risultati essere distanti».

Per questo vi è dunque tanto risentimento verso il Partito democratico?

«Negli ultimi vent’anni siamo usciti troppe volte con l’abito sbagliato. Anche così si è rotta la fiducia. La speranza di troppi è divenuta delusione e poi lontananza fino a farsi rabbia e parlare lingue diverse».

In molti paesi europei si registra l’avanzata delle destre populiste e sovraniste. Con Trump dopo settant’anni gli Stati Uniti non sostengono l’architettura dell’Europa, la cornice nella quale l’Italia da nazione distrutta si è fatta potenza industriale. Questi cambiamenti sono destinati ad incidere pesantemente sulle nostre politiche.

«Il popolo non sceglie a capocchia, segue un filo più spesso di quanto pensiamo. A preoccupare deve essere l’autoritarismo e la capacità di penetrare una sofferenza esplosa coltivando furia e rancore sociali».

I sondaggi parlano di un Paese che nonostante gli allarmismi esprime un consenso ancora alto per la maggioranza di governo. Probabilmente il tono alto contro gli eurocrati di Bruxelles fa apparire coraggiose, se non temerarie, certe proposte di cui l’esecutivo si sta facendo portatore, nonostante la scarsità delle risorse economiche occorrenti per le coperture.

«Ci ritroviamo con un governo che sta facendo poco e male, che interpreta il proprio ruolo come se la campagna elettorale non possa mai concludersi. Vengono presi provvedimenti limitati e sbagliati. Ciononostante è una esperienza di governo che a livello internazionale viene vista come un laboratorio, e ciò deve allarmarci per tante ragioni a iniziare dalla natura di questa operazione politica. Per il tipo di destra che oggi si affaccia con una violenza che non avevamo mai conosciuto».

Le politiche di integrazione dell’Unione vengono viste come nemiche nel momento in cui la burocrazia comunitaria penetra la vita dei cittadini e delle imprese.

«Ritenere la politica sottoposta agli automatismi di bilancio equivale a spazzare la democrazia sotto il tappeto. L’Europa oggi è un orizzonte complicato da descrivere. Il dato a mio avviso importante è che in questo continente stanno cambiando gli equilibri di potere tra due culture fondamentali che hanno segnato la storia dell’ultimo secolo, quella dell’Europa aperta e pacificata, che ha dato vita al processo di integrazione. E la cultura nazionalista, attraverso l’affermazione della destra radicale e di massa a partire dai paesi dell’est europeo, dove guardano alla nostra esperienza di governo come ad un laboratorio politico. Queste due culture sono destinate ad uno scontro molto aspro».

Uno scontro la cui durata dipenderà dall’affermazione del blocco culturale quindi?

«Nel 1994 con l’affermazione di Berlusconi pensavamo che le destre avevano un ciclo lungo davanti, ma venti mesi dopo a suonare la campanella di Primo Ministro c’era Romano Prodi. Ciò fu possibile perché avevamo fatto l’Ulivo, un’alleanza larga sul terreno sociale, rapporto con il mondo dell’impresa, del lavoro, della cultura, con una visione dell’Italia degli anni successivi. Vincemmo le elezioni. E anche il Pd nasce come reazione alla crisi conclamata dei due azionisti di riferimento, i Ds e la Margherita, ed era pericoloso e rischioso quel disegno perché dalla somma di due crisi non sempre viene sempre fuori qualcosa di buono. Invece avevamo avuto la capacità di mettere in campo una forza vera, popolare. Voglio dire che dalle grandi crisi si esce sempre con un atto di radicale coraggio».

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