Nuovo giorno di primarie quest’oggi con il ballottaggio Renzi-Bersani che consegnerà il candidato premier del centrosinistra ad un Paese, o perlomeno ad una parte consistente di esso, che si è risvegliato dal tepore di un’indifferenza politica proprio nel momento in cui stava, o forse sta ancora, prendendo piede il sentimento di antipolitica. Partecipazione. Questo il termine tornato in voga spinto non tanto dall’abuso elettorale o dai fari mediatici, quanto da un comune sentire quel senso di responsabilità che ha il valore, l’onere e il compito di abbattere individualismi e personalismi e spingere il Paese verso un’inversione di marcia. “Le primarie sono uno strumento che sta cambiando il rapporto tra cittadini e politica”. Sono le parole di Luca Verzichelli, docente di Sistema Politico Italiano all’Università di Siena. Con lui, un’analisi sui dati del primo turno, una lettura dei risultati, del loro significato, dello scenario politico attuale e di quello che potrebbe prospettarsi domani, quando sapremo il vincitore del ballottaggio,  e nel 2013, quando si terranno le elezioni politiche.

Due correnti democratiche «Da un punto di vista generale – spiega Verzichelli – il dato positivo è da ricercare sul numero degli oltre 3 milioni di elettori del centrosinistra. Anche se non si tratta di una cifra enorme e di un dato difficilmente comparabile con le primarie del 2005 o del 2009, però il numero degli elettori è stato abbastanza impressionante alla luce anche della crisi di legittimazione della politica. Parlerei di discreto successo senza attribuirgli l’aggettivo eccezionale. Il Pd vuole essere un partito di massa e allora deve saper portare 3 milioni di simpatizzanti alle urne. Dal punto di vista dei risultati, questi evidenziano l’esistenza di due partiti democratici. Da una parte una corrente non solo più fedele ad un leader, Bersani, ma anche alla storia e all’organizzazione dei grandi partiti di massa. Mi riferisco ad un séguito da rispettare perché non sono né vecchi né persone che vanno dietro in maniera sconsiderata o servile alla casta. Un’altra corrente che è un’idea più aperta di Partito Democratico, che ha una chiara domanda di preoccupazione per i rapporti intergenerazionali. E quest’ultimo aspetto oggi è importantissimo perché si parla di quanto spazio dare all’interno di una società futura, certamente più povera, alle generazioni che hanno avuto meno di noi. Questa seconda parte è incarnata dall’elettore di Renzi. Il candidato alla Presidenza del Consiglio che emergerà dalle primarie, essendo per forza di cose un candidato del PD, dovrà tenere conto di entrambi le correnti e delle rispettive esigenze. Credo che sia abbastanza logico pensare ad una condivisione del potere. Se il Pd vuole avere un futuro penso che questo punto sia strategico».

Quali potrebbero essere poi gli equilibri per il Governo?
«Da un lato i dati, in particolare quelli del professor D’Alimonte, ci dicono che Renzi come opinione pubblica ha uno spazio maggiore e, nella prossima primavera ma non questa domenica, potrebbe intercettare un voto anche di sinistra. Il sindaco di Firenze potrebbe tenere insieme i voti di Vendola e quelli centristi in senso lato, anche grazie ad un messaggio politico anti establishment, arrivando a varcare la soglia del 40% di consensi per la coalizione. Con Bersani siamo sempre intorno a quel 30-33% che, da Berlinguer a Veltroni, ha caratterizzato la sfida da sinistra al governo della balena bianca prima e al berlusconismo poi. C’è da sottolineare però che Bersani, con la sua proposta più tradizionale di leader partitico, offre una scialuppa coalizionale ad un centro peraltro ancora molto in cantiere. Cosa che Renzi, in nome di una sfida di vocazione maggioritaria che ricorda molto quella di Veltroni del 2008, non offre. Direi quindi che c’è bisogno di una forte collaborazione se il PD vuole vincere le prossime elezioni. Se vince Bersani dovrà dimostrare due cose: totale autonomia dall’establishment del partito e qualche strappo nelle scelte per la squadra di Governo e di partito».

Il voto in Toscana, qual è la sua lettura?
«Le sfide per il rinnovamento partono da un’area per diffondersi poi in tutta Italia. Renzi è andato a conquistare aree della “fascia rossa” come la Toscana negli elettori stufi dell’immobilismo dei partiti, su tutti il Pd. In certe realtà di questa regione è già in atto un cambiamento ed è un mutamento che può essere governato da chi ha voglia di cambiare anche in continuità con la politica. Oggi c’è bisogno di professionalità e professionismo politico però con la voglia, davvero, di superare quella fase di gestione immobilistica. Non è un caso che l’ala bersaniana abbia perso terreno in queste primarie in quelle zone dove era stata così forte. Il messaggio è stato molto chiaro ma credo, al contempo, che possa essere accolto da giovani e capaci dirigenti includendo qualche idea e, soprattutto, qualche personaggio di questa sorta di “beat generation” che viene dai renziani così come dalla sinistra del PD. E’ il momento di cambiare aria, aprire davvero le porte del partito e svecchiare».

Il voto renziano è anch’esso sintomo e frutto di un sentimento di antipolitica?
«Per certi versi sì. L’antipolitica permea tutta la società italiana ma questo non significa che per ridurla, parametrizzarla o neutralizzarla bisogna assumerla. Però bisogna dare per scontato che, se qualcuno vuole cambiare dall’interno una cosa, abbia un atteggiamento e un dizionario che vada a intercettare la nostra società stanca di politica. Attenzione però. Come chiederei a Bersani di tenere in conto questi aspetti fondamentali per tenere unito il partito, chiederei a Renzi lo sforzo di una gestione collegiale nell’impegno all’interno del partito. Renzi deve passare dalla fase della rottamazione ad una fase matura, deve forse diventare grande. Sarà una bella sfida mettere insieme queste due generazioni, non sarà facile per tutti e due, ma se lo dovessero capire e poi realizzare, il Partito Democratico diventerebbe un’offerta politica interessante, un partito moderno, socialdemocratico in gran parte della sua struttura e, al contempo, molto aperto alla società».

E’ questa la vera sfida per il Partito Democratico? Anche per poter governare?
«Se è fallita fino ad oggi lo si deve alle colpe della sua classe dirigente che si è arrovellata per vent’anni su socialdemocrazia o liberlademocrazia e, nel frattempo, il mondo è cambiato. Per essere buoni politici bisogna capire fino in fondo le ragioni, almeno quelle buone o in buona fede, dell’antipolitica».

Quali sono state invece le ripercussioni dei risultati elettorali su Siena?
«Il segnale è stato forte, come in tutta l’area sud della Toscana, a Grosseto o Arezzo. A Siena a maggior ragione c’è la necessità di un ulteriore passo avanti nella costruzione di una struttura collegiale del partito. Esiste, ed è evidente, un’opinione pubblica che è stanca delle lotte tra fazioni politiche. Il Partito Democratico non ha mantenuto la promessa di superare quelle fazioni originarie interne».

Quale sarà il Governo di questo Paese nel 2013?
«Assumiamo che vinca il PD e con una coalizione credibile, non l’Ulivo 2006 per intenderci. Sarebbe bello, e lo dico da cittadino, tornare alla politica. Con delle condizioni: leader forte, gestione partitica collegiale, pochi ma fidati alleati e un’opposizione reale. Poi si potrebbe riprendere anche alcune competenze tecniche del Governo attuale ma con uno sguardo più attento verso le parti sociali di riferimento per un centrosinistra. Se si riesce a tenere insieme questo quadro, cosa non semplice, allora si potrà governare senza fare grandi miracoli, lavorando duro per riconsegnare poi probabilmente il Paese all’opposizione. L’alternativa è il “governicchio tecnico” di due anni per cercare di uscire dalla crisi. Ma lo spazio per un Governo di legislatura c’è».

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