FIRENZE – “La responsabilità di evitare il ripetersi di questi eventi è in capo a noi, a tutti noi, agli amministratori. E’ un compito ineludibile perché il nostro paese è tanto bello quanto fragile, e quindi va curato”.
A dirlo, nel 59esimo anniversario dell’alluvione di Firenze il ministro per l’Ambiente e la Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin in un videomessaggio inviato alla Conferenza internazionale sulla riduzione del rischio idrico in corso proprio a Firenze. “La ricorrenza di oggi e il luogo in cui si svolge l’evento – ha sottolineato il ministro – sono più che significativi, emozionano. Abbiamo tutti negli occhi le immagini della tragedia, le immagini della tragica alluvione che colpì Firenze e l’Italia tutta”.
Il 4 novembre 1966 l’Arno esondò a Firenze dopo precipitazioni intense che avevano interessato il bacino idrografico per diversi giorni. Le piogge, iniziate il primo novembre, si erano concentrate soprattutto sulle zone montane del Casentino e del Valdarno superiore. Le dighe di Levane e La Penna, costruite negli anni precedenti per regolare il flusso, non riuscirono a contenere la portata straordinaria. Durante la notte tra il 3 e il 4 novembre, il livello del fiume superò i 5 metri sullo zero idrometrico al Ponte Vecchio, con una velocità di corrente stimata intorno ai 2.000 metri cubi al secondo.
Gli argini cedettero in più punti tra le 4 e le 7 del mattino. L’acqua invase prima i quartieri periferici come Rovezzano e San Salvi, poi il centro storico. In Piazza Santa Croce raggiunse i 2 metri; in Via de’ Bardi e Lungarno Acciaiuoli superò i 3 metri. Le strade si trasformarono in canali, con un flusso continuo di detriti, mobili, bidoni di petrolio fuoriusciti dai depositi e carcasse di animali.
Le abitazioni ai piani terra furono allagate completamente. Nei negozi e nelle botteghe artigianali l’acqua portò via merci, attrezzi e registri. Nella Biblioteca Nazionale, situata in Lungarno delle Grazie, entrarono oltre 1,5 milioni di volumi, di cui circa 300.000 risultarono gravemente danneggiati. Manoscritti medievali, incunaboli e carte geografiche rimasero immersi per ore nel fango oleoso. Anche la Galleria degli Uffizi subì infiltrazioni, con danni agli affreschi delle sale inferiori e al deposito di sculture.
Il Battistero di San Giovanni rimase sommerso fino alle Porte del Paradiso di Ghiberti. La Cattedrale di Santa Maria del Fiore vide l’acqua entrare dal lato sud, raggiungendo il pavimento della navata. Ponte Vecchio resistette alla pressione, ma sotto le sue arcate passarono tronchi, automobili rovesciate e interi tetti divelti. Altri ponti, come il Ponte alle Grazie, crollarono parzialmente.
Nelle ore successive l’acqua iniziò a defluire, lasciando uno strato di fango spesso fino a 50 centimetri in molte vie. Il centro storico rimase isolato: mancava energia elettrica, gas e acqua potabile. I telefoni non funzionavano. I vigili del fuoco e l’esercito intervennero con mezzi di fortuna. I primi soccorsi arrivarono da Prato, Pistoia e Livorno.
Nei giorni seguenti giunsero migliaia di volontari, “gli angeli del fango”. Studenti, operai, artisti e cittadini comuni, provenienti da tutta Italia e da paesi come Germania, Francia e Stati Uniti, lavorarono per settimane spalando fango, asciugando libri e pulendo opere d’arte. Furono organizzati centri di raccolta in scuole e palestre. I danni economici furono stimati in centinaia di miliardi di lire dell’epoca.
La città si ristabilì gradualmente. Furono restaurati affreschi, libri e dipinti grazie a tecniche innovative. L’alluvione del ’66 rimane un riferimento nella storia di Firenze e un esempio di solidarietà collettiva.







