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PISA – Per anni ci siamo sentiti dire che il cervello, una volta adulti, è più o meno “bloccato” com’è. Cambia poco e impara peggio. Una nuova ricerca dell’Università di Pisa dimostra che le cose non stanno così: il cervello adulto può ancora cambiare, eccome. Ha solo bisogno di un segnale per riattivare le sue capacità nascoste.

Il punto sorprendente è da dove arriva questo segnale. Non dalla grande e famosa corteccia, ma da una piccola regione nascosta in profondità, il pulvinar. È una specie di “centralina”: quando allenta la sua presa, la parte del cervello che gestisce la vista torna improvvisamente più flessibile.
Per capirlo, il team di ricerca ha fatto una prova molto semplice: ha chiesto ai partecipanti di coprirsi un occhio per due ore. Poi ha osservato cosa succedeva nel cervello. E succede una cosa che non ti aspetti: due ore di occhi bendati bastano a far riorganizzare i circuiti che usiamo per vedere. Le aree visive comunicano in modo diverso, e soprattutto il pulvinar smette per un attimo di “frenare” la corteccia. È in quel momento che la plasticità si riaccende.
“In condizioni normali – spiega Miriam Acquafredda, prima autrice dello studio – il pulvinar tiene la corteccia un po’ sotto controllo. Quando questo controllo diminuisce, la corteccia torna capace di cambiare”. In altre parole, il cervello adulto non è rigido: è prudente. Rimane stabile finché tutto fila come previsto, e diventa plastico quando serve adattarsi.
Maria Concetta Morrone, una delle coordinatrici della ricerca, sottolinea che “per molto tempo si è pensato che il cuore delle funzioni più complesse fosse solo la corteccia. Qui vediamo che una struttura profonda e meno nota può guidare tutto il sistema. È come scoprire che un personaggio secondario manda avanti la storia più del protagonista”.
A tirare le fila è Paola Binda, che offre una chiave di lettura semplice: “Il cervello funziona facendo previsioni su quello che succederà. Quando la realtà lo sorprende, deve aggiornare queste previsioni. E questo aggiornamento è esattamente ciò che chiamiamo plasticità”.

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