Quando, lo scorso novembre, Philip Roth, il più grande e prolifico narratore contemporaneo, annunciò le dimissioni irrevocabili da scrittore di romanzi, la notizia rimbalzò ben oltre gli àmbiti delle cronache letterarie. Chi ancora non l’aveva fatto, si affrettò a cercare in libreria il suo ultimo romanzo, Nemesi, nella consapevolezza (e curiosità), di leggere, appunto, il capitolo finale di un lungo cursus letterario. E così, per l’ultima volta, godersi quel modo di narrare, sempre in perfetto equilibrio tra il flusso della vicenda che si va raccontando e il pensiero, l’introspezione. Roba da farne un manuale nelle scuole di scrittura (ammesso che possa esistere una didattica votata all’insegnamento del saper scrivere). Si veda, ad esempio, come Roth sia insuperabile maestro del racconto autobiografico, con la creazione di sorprendenti alter-ego (pensiamo alla figura di Nathan Zuckerman, che appare in diverse opere) o personaggi chiamati addirittura Philip Roth, ma che non sono lui. Altrettanto geniali appaiono le modalità con cui lo scrittore sa stare contemporaneamente “dentro” e “fuori” i fatti narrati. O come la storia, il dramma, la voce di un singolo, assuma, pagina dopo pagina, la coralità del “noi”. Anche a proposito delle ragioni dello scrivere, quelle di Roth possono essere illuminanti: la narrativa non è chiamata a dare risposte ma a porre domande. Ciò che spinge a raccontare – sostiene l’autore di Pastorale americana – è il desiderio di fare esperienza, il chiedersi “e se?, e se… succede questo o quello, cosa può accadere?”. Da questa domanda scaturisce la scrittura, la prova – in verità “frustrante” – di cercare le parole e le frasi giuste. Se pur esercizio non immune da patimenti, è comunque il minor male, perché, sempre a detta del maestro, “i periodi peggiori di infelicità, depressione, ansia sono stati quando non scrivevo”. Del resto la sofferenza è condizione normale per chi faccia quel mestiere, non c’è bisogno di andarla a cercare, “puoi star tranquillo che sarà lei a trovarti”. Ecco un bel punto di vista a disposizione di scrittori, critici, lettori, che, in questi ultimi tempi, si chiedono, peraltro, se il romanzo non sia morto, e con lui defunta la critica, fors’anche l’intera letteratura. Quanto, invece, al modo di scrivere e di raccogliere l’ispirazione, è stato interessante leggere (Repubblica del 30 gennaio 2013) un testo di Mercè Rodoreta – figura di primo piano della letteratura catalana del Novecento – che muoveva dalla constatazione di come un romanzo nasca dall’imponderabile alchimia di intuizioni, riserve di memoria, “agonie e risurrezioni dell’anima”. Un romanzo – concludeva la Rodoreta – “è uno specchio che l’autore porta a spasso lungo la strada”; e questo specchio, ancorché infranto, “riflette la vita”. Tale è dunque lo scrittore, un portatore di specchi che passa a riverberare storie. Ma anche un prestatore di pensieri, sentimenti, visioni, pezzi di mondo. E può capitare, talvolta, che quanto prestato non gli ritorni mai indietro.

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