Casa Tozzi
Casa Tozzi
Casa Tozzi

La strada che, appartata, incresta l’altura di Poggio al Vento, a primavera s’improfuma tutta. Erbe e fiori soffocano di prepotenza le prode. Tanto rigoglio quasi sconcerta, nutre sensi di colpa verso i morti che sul colle di fronte dormono nella bianca, perfetta geometria dei loro sepolcri. Ogni folata d’aria sgomenta ed esalta i vivi, li sbigottisce, presi dentro un eccesso di odori e pollini. A pochi è noto che a suscitare tanto turbamento sia una ragazza di nome Ghisola. Perché è lei (il suo fantasma) che ancora esce dall’usciolo sull’aia della casa rossa, va per i campi, siede sotto gli olivi, punta i suoi occhi neri fino a far male alle cose che guarda.

Ma diciamola giusta. Cominciando proprio dalla casa rossa su cui sta scritto che qui, dal 1908 al 1914, visse lo scrittore Federigo Tozzi, dove compose il romanzo “Con gli occhi chiusi”. Così che – ricorda la targa – luoghi, creature, stagioni di questa campagna, allora solitaria, animarono la sua grande arte.

Sappiamo, infatti, che il podere descritto nelle prime pagine del romanzo è, appunto, quello di Castagneto, di proprietà del babbo di Federigo. Salvo che per il nome (nella finzione letteraria è chiamato Poggio a’ Meli) la rappresentazione nulla concede alla fantasia: «Poggio a’ Meli si trovava fuori di Porta Camollia per quella strada piuttosto solitaria che dal Palazzo dei Diavoli va a finire poco più in là del convento di Poggio al Vento. C’era una vecchia casetta rintonacata di rosso, a un piano solo; e congiunta al tinaio e alle abitazioni degli assalariati fatte sopra le stalle. Il rosso pareva molto bello a Domenico […]». E’ dunque da qui che muove la storia tra Pietro e Ghisola (i protagonisti del romanzo), rimembranza di un amore vero di Federigo per tale Isola (“I suoi occhi neri sembravano due olive che si riconoscono subito nella rama, perché sono le più belle; quasi magra, aveva le labbra sottili”). La ragazza era venuta, dal Chianti, ad abitare a Castagneto in quanto parente di certi braccianti che lavoravano nel podere del Tozzi.

“Con gli occhi chiusi” è un grande libro sulla menzogna amorosa, in cui una giovane donna inganna un ragazzo, e lui inganna se stesso. Poco accade dal punto di vista della trama. Sulle pagine tozziane a prevalere è lo scavo continuo nella psicologia dei personaggi che divengono, in questo modo, caratteri universali. Ed ecco svolgersi l’aggrovigliato filo di una autobiografia ai limiti del subconscio, tutta giocata su un “io” che perde i propri contorni e si proietta allora in un “doppio”, in un individuo che si vuole diverso e allo stesso tempo identico a sé.

E’ una non-storia d’amore, percorsa da sottesa misoginia e dominata dalla bugia e dal dolore. In sostanza lei (Ghisola) – come ebbe a evidenziare Carlo Cassola – è «un autentico polo di attrazione sessuale”; lui (Pietro) un sognatore che vorrebbe impossessarsi dell’oggetto del desiderio, ma non ci riesce a causa di una sorta di sconfortante ‘cecità’ verso l’esistenza che lo porta ad essere ripiegato totalmente su di sé. Ciò che vorrebbe amare è solo la rappresentazione dell’amore, di una realtà ‘altra».

Amore, quindi, che paralizza, fa male («L’idea della menzogna in quella bocca tante volte baciata, mi travolgeva in un dolore muto, indicibile»). Prepotente sensualità che viene frenata di continuo da una sessualità inibita. Pietro è un introverso, un cupo disadattato; Ghisola una adorabile sgualdrina, ambiziosa, provocante, vezzosa, istintiva. L’odore che emana la rende conturbante, desiderabile fino allo spasimo. Prima amante di un vedovo, poi di un commerciante, infine prostituta. La storia termina con Pietro che troverà Ghisola, già con i segni di una incipiente gravidanza, a esercitare il mestiere in una casa chiusa. Fu in quel bordello che «Allora egli, voltandosi a lei con uno sguardo pieno di pietà e di affetto, vide il suo ventre. Quando si riebbe dalla vertigine violenta che l’aveva abbattuto ai piedi di Ghisola, egli non l’amava più». E’ così che si conclude la drammatica vicenda dei due. Pietro apre finalmente gli occhi sulla realtà, si sveglia dal sogno. Magari da allora in poi potrà provare a voler bene a un essere che sia davvero altro-da-sé.

In una prima versione del romanzo, Tozzi aveva deciso un finale più consolatorio (e più scontato): «Pietro la perdonò. E morto Domenico [padre di Pietro, contrario fin da subito a quella unione] la potette sposare». Poi, non convinto, aveva chiuso con la frase precedente: «Allora egli voltandosi a lei… vide il suo ventre». Ma Antonio Borgese, convinto ammiratore dello scrittore senese, non era d’accordo: ci voleva un finale. E fu quello che noi leggiamo.

Forse anche Ghisola avrebbe desiderato un epilogo diverso. Perciò, ad ogni primavera, il suo fantasma ritorna dove tutto era iniziato. Lei è sempre la stessa, seducente, primitiva, disperante («Ghisola aveva ripreso la sua strada verso il campo, con un’ebrezza che empiva di gioia tutto il suo essere. Il movimento delle gambe assecondava questa ebrezza; e le sottane erano così lievi che non le sentiva né meno»). Torna, ma sa che il tempo non ammette repliche. O se anche le concedesse, ciascuno – illusoriamente nuovo – ripeterebbe se medesimo all’infinito. Del resto anche la primavera è tale; fa nuovi i greppi, ma sempre con gli stessi fiori. A primavera, Ghisola viene a trattare con la vita il proprio destino di negato amore. Dentro i profumi della stagione nuova inscena schermaglie di lusinghe, bugie, promesse che sa di non poter mantenere. E’ una partita di seduzione, specchi, doppiezze, di occhi ancora una volta chiusi e spalancati. Un gioco bello e fugace come i papaveri rossi lungo la strada di Poggio al Vento.

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