«E’ che non ci hanno messo niente». Questo è l’amaro commento che ho più ascoltato in giro, tra i tantissimi che hanno vissuto la breve euforia del Mondiale davanti al maxischermo, al bar, con gli amici. Il particolare che più ha seccato gli Italiani verso la nazionale di calcio. Quelli che hanno aspettato le partite con trepidazione, hanno spostato turni di lavoro, hanno pigiato forte in autostrada pur di arrivare in tempo per sentire l’inno nazionale. E la risposta è sempre stata quella: «Non ci hanno messo niente».
Hanno giocato un Mondiale come si gioca la spuma con il barista a chi arriva primo ai quindici. Senza nerbo, senza amor proprio. Con sufficienza e altezzosità; come fosse un fastidioso intralcio prima delle vacanze nei mari tropicali. Sfido chiunque a non averlo pensato, ieri, quando i calciatori sono scesi dall’aeroplano: tutti con i loro occhialoni da sole, pronti a salire sulle supercilindrate, a rimorchiare superveline, ad occupare superalberghi a otto stelle su spiagge ultralussuose. Che poi, magari, non è nemmeno vero. Ma è quello che si raccoglie quando non c’è più la passione. Quando alle cose non ci si tiene più. Ecco. Forse quello che ha ormai allontanato la gente da questi presunti fenomeni sta proprio in quella parola, oltre che nei risultati che non arrivano mai: manca la passione, manca l’anima, manca il “tenere a qualcosa”. Siamo diventati un calcio dove si usa troppo la parola “professionalità” e dove non si usa più la parola “cuore”. Ed eccoli, i professionisti di adesso: bambini poco più che adolescenti, molto spocchiosi, molto arroganti, totalmente disancorati da qualsiasi tipo di realtà. Soprattutto, del tutto disinteressati a quelle cose che gli danno lautamente da mangiare: robetta tipo l’affetto dei tifosi, l’attaccamento ad una maglia, il rispetto per chi fa i chilometri per venirti a vedere o compra un costoso abbonamento televisivo.

facchettiAbbiamo minicalciatori che non ti sanno dare più un’emozione, ecco il problema.  Gente che ha 25 anni e sembra ne abbia 50. Gente che dopo due, tre anni di (pseudo)carriera sembra non abbia proprio più nulla da dire: eppure ho guardato la partita d’addio di Javier Zanetti, poche settimane fa, e mi sono anche commosso. Perché si capiva che Zanetti aveva il dispiacere negli occhi, abbandonando quel mondo favoloso. Che non era solo una questione di soldi e di professionalità, ma era proprio roba di pancia: si capiva che giocare a San Siro, vestire la maglia dell’Internazionale, esserne addirittura il capitano. Beh, deve essere stata proprio una gran figata. A vederli, questi sbruffoncelli sembrano interessati solo al quadriennale da strappare il più in fretta possibile e al tavolo riservato, nel privè dell’Hollywood. Giocare a pallone, bah. Raiola ha detto che il calcio, in Italia, è ormai finito. Si rassegni. Anche se siamo messi male, e la colpa è anche di Raiola e dei tanti mini Raiola ai quali il mondo del pallone ha permesso di proliferare e ingrassare. E’ vero che non c’è più un calciatore per il quale ci butteremmo nel fuoco, come magari avremmo fatto per Riva, Mazzola, Facchetti o Zoff (che erano milionari anch’essi, e quindi non è solo una questione di soldi). Ma continueremo a seguire e a voler bene al calcio perché, alla fine, ne siamo innamorati: del calcio, e poi della Juve, del Milan, dell’Inter, della Fiorentina e della Nazionale. Siamo come quei fanatici del bel canto: quelli che amano la musica di Verdi e Puccini, ma non sopportano più i tenori che la interpretano, con poco talento e nessuna passione. Mino Raiola si porti via Balotelli, come ha minacciato di fare. Anzi, se ha un minuto gliene indico un’altra dozzina da portare via, insieme a Balotelli. Se li porti più lontano che può. Noi saremo più leggeri. Così si viaggia meglio.

 

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