Eugenio-MontaleSiena 3 luglio 1944. E’ la data che ricorda la Liberazione della città e che quest’anno, nel settantesimo della ricorrenza, trova opportuno ricordo anche nel drappellone che andrà in premio alla contrada vincitrice del Palio di luglio. Sono, infatti, settant’anni dalla graduale fine della seconda guerra mondiale (nel teatro europeo si sarebbe conclusa l’8 maggio 1945) che al suo termine contò 55 milioni di morti, coinvolse il mondo in un conflitto totale, vide il dramma dell’Olocausto, sprofondò l’Italia dentro la follia del nazi-fascismo.

Oggi che Siena, attraverso la dedicazione di un palio, intende fare memoria di tale tragedia, merita richiamare una testimonianza letteraria che evoca la giostra senese (la sua festosa vitalità) quasi contrapposta al fosco presagio di quella guerra che avrebbe, per la seconda volta, oscurato il Novecento. Si tratta della poesia “Palio” di Eugenio Montale, contenuta nella raccolta “Le occasioni” (1939). E’ un testo niente affatto d’occasione, molto complesso, talvolta oscuro nei suoi significati. Vi sono compresi (e sovrammessi) per lo meno tre sentimenti: l’amore per una donna, il coinvolgimento emotivo nella liturgia paliesca (e in ciò che essa suscita), lo scoramento dinanzi ai destini dell’umanità.

Siamo, appunto, nel 1938. Montale si era rifiutato di prendere la tessera del partito fascista. Da ciò le sue imminenti dimissioni dall’incarico di direttore della Biblioteca Viesseux. Il poeta assiste al Palio insieme a Irma Brandeis (colei che nella trasposizione poetica assumerà il nome di Clizia), una ebrea americana che poco dopo la visita senese dovrà tornare negli USA a causa delle leggi antiebraiche emanate da Hitler e quindi da Mussolini. E’ a lei (musa, donna-angelo a cui è dedicato l’intero libro delle “Occasioni”) che il poeta si rivolge nella poesia “Palio”. La osserva impassibile dinanzi allo spettacolo di piazza del Campo (la “purpurea buca / dove un tumulto d’anime saluta / le insegne di Liocorno e di Tartuca”). Al pensiero del difficile frangente storico, ella è come spersa, assente. Già il sentore della guerra attraversa l’Europa (“… ultimi annunzi / quest’odore di ragia e di tempesta / imminente…”, e Clizia è impietrita, estranea a qualsiasi emozione (“Il lancio dei vessilli non ti muta / nel volto…”). La piazza, ancorché festosa, sembra farsi partecipe di quella silenziosa angoscia: “Dalla torre / cade un suono di bronzo: la sfilata / prosegue fra tamburi che ribattono / a gloria di contrade”. E ancora lei guarda “la sommossa vastità”, “i mattoni incupiti” delle architetture senesi, “lo stupore / che invade la conchiglia / del Campo”. Tra guizzi di luce, colori, ombre reali e metaforiche, il poeta scorge l’anello, il rubino che la donna porta al dito e che lui credeva perduto. Essa lo tiene “tra le dita” come “un sigillo imperioso”, una sorta di prodigioso amuleto che giusto in ragione della sua imperiosità – ovvero della ragione e della coscienza opposte alla irrazionalità e alla violenza – potrebbe sventare la sciagura che sta per abbattersi sul mondo. Poi, dopo un inserto fiabesco (“Torna un’eco di là: c’era una volta…”) che sembra rievocare (paragonare al presente) antichi e oscuri tempi, Montale riporta la scena su piazza del Campo. Irrompono, allora, lo sventolio e i disegni delle bandiere, “il ghirigoro d’aste avvolte / (Oca e Giraffa) che s’incrociano alte / e ricadono in fiamme”. Ed ecco la folla, la festa, il pathos: “Geme il palco / al passaggio dei brocchi salutati / da un urlo solo”. La corsa “è un volo”, e proprio nel balenio della giostra, nel grido degli astanti che pare riportare in vita pure i trapassati, Clizia è invitata a dimenticare la morte, la sragionata balbuzie di chi, comunque, sarà condannato dalla storia. Passato e presente confliggono e cercano un’intima, difficile riappacificazione nel “giorno dei viventi”. Così il presente si allontana, c’è un traguardo che il poeta indica “fuor della selva / dei gonfaloni, su lo scampanìo / del cielo irrefrenato”. Probabilmente osservando i segni lasciati sul tufo dagli zoccoli dei cavalli, forse avendo ancora impresso negli occhi il giro convulso e colorato dei barberi, sollecita Clizia ad alzarsi, “finché spunti la trottola il suo perno / ma il solco resti inciso”. Una trottola che è giro, sbandamento, equilibrio. Come lo è la vita, con il suo perno che insiste fino a spuntarsi, ma lasciando un solco fisico e morale.

Nell’intreccio di storia, passione, poesia, istanza civica racchiusi nel Palio, appare indubbiamente toccante la lettura che ne fece Eugenio Montale in quel lontano 1938. Sempre attuale rimane la tensione etica che attraversa la lirica montaliana. A maggior ragione oggi, sul proscenio del terzo millennio, allorché, dinanzi a un incerto futuro, è quanto mai utile fare memoria degli errori compiuti nel passato. Il Palio di Siena è un bellissimo gioco, ma, come sappiamo, è anche seria metafora dell’esistenza umana, delle vicende di singoli e di popoli. Il Palio del settantesimo della Liberazione non manca di ricordarcelo.

 

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