C’è chi sostiene che la lingua sia adatta per affermare concetti, ma che per esprimere i sentimenti funzioni decisamente meglio il dialetto. Niente male la provocazione, magari per riaprire un dibattito che a più riprese ha trovato opinioni diverse tra i letterati.
La questione, peraltro, ha radici profonde di secoli. Almeno dal Trecento, quando – grandi complici Dante e Petrarca, successivamente l’Ariosto – il dialetto toscano diventa lingua italiana ancor prima che l’Italia esistesse. Inizia così l’opposizione tra lingua e dialetti. Questi ultimi – dice Cesare Segre – “più vicini alla naturalità, al gusto popolare, alla corporeità, ai bisogni immediati, all’espressione istintiva, al parlato”. Tale antinomia proseguirà, lungo i secoli, riformulandosi di volta in volta in una lingua appartenente alle classi più istruite, opposta a quella del popolo che per comunicare nella propria quotidianità, altro non adotterà se non il dialetto.
Una certa ingessatura della lingua letteraria comincerà però ad incrinarsi allorché il dialetto troverà un efficace utilizzo in poeti come Porta, Belli, Di Giacomo, Tessa. E ancora di più nel Novecento, giungendo a maggiori e sorprendenti esiti (attraverso una lingua scarna, raffinata, di grande musicalità ed efficacia) con Marin, Noventa, Guerra, Baldini, Pasolini, Loi, Zanzotto.
Ulteriori considerazioni andrebbero poi svolte circa la poesia popolare, quale espressione “alternativa” alla lingua colta, e quindi alla cultura delle classi dominanti. Giusto Pier Paolo Pasolini vi dedicò grande attenzione con l’antologia del Canzoniere italiano (1955). Una notevole raccolta di canti popolari, suddivisi per regione, preceduta da una denso saggio introduttivo, ove, fra le altre cose, si dice che la lingua parlata dal popolo si è evoluta di invenzione in invenzione per forza autonoma, per quella ricchezza interiore che è comune a tutti gli uomini, nessuno escluso.
Le questioni attorno al bimonio lingua/dialetto restano aperte ancora oggi. E mentre la lingua italiana va sempre più uniformandosi allo sbrigativo lessico tecnologico e televisivo, non mancano coloro che, praticando una scrittura in dialetto (e in vernacolo) ricercano in esso l’espressione primigenia e forgiata da un vissuto autentico, il suono evocante di una saggezza atavica. Certo è che la poesia in dialetto per essere all’altezza dei suoi intenti non ha magari da confondersi con gli angusti e ormai vieti codici della “poesia dialettale”. Si capirà che la distinzione non è di poco conto.

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