penna-e-calamaioLa letteratura è conoscenza, viaggio, emozioni, scoperta di se stessi, degli altri e del mondo. Ne troveremo conferme anche in questa rubrica che, settimanalmente, proporrà frammenti d’autore. Un piccolo “manuale d’uso” per i nostri giorni comuni e, soprattutto, per i sentimenti che dentro quei giorni abitano.

Juan Villoro, che ne è l’autore, li chiama ‘racconticoli’, cioè un po’ racconti e un po’ articoli. A noi che li leggiamo appaiono pezzi di notevole bravura, acrobatici testi tra letteratura, giornalismo, autobiografia. Sono le pagine di “C’è vita sulla terra?” che lo scrittore messicano ha messo insieme per scandagliare, non senza ironia, la tumultuosa realtà di un mondo che cambia, certe radici che resistono, il senso (spesso incomprensibile) delle cose, i fenomeni sociali osservati nel loro stato nascente, come quando indaga le dinamiche della fase terminale delle cene: «La gastrosofia non ha studiato a sufficienza questa zona blanda delle relazioni sociali, la pausa in cui qualcuno deve giustificare perché si trova a tavola». Ecco così uno spassoso catalogo di paranoie, coincidenze, malintesi, fastidi e illusioni che caratterizzano la vita quotidiana, in un Messico che si fa metafora del mondo intero.

 

[…] Passai i miei primi giorni a Città del Messico a casa di mia madre. Ogni tanto, qualcuno gridava fuori dalla porta: «Vendete lenti d’ingrandimento?» Mi sorprese la reiterata confusione fino a quando mia madre disse: «Ti sei già dimenticato di quanto sia strano il Messico». Per tre esemplari anni, lei aveva conservato i nostri mobili nel suo salotto, sicché la conversazione si svolgeva in uno scenario che assomigliava a un bazar ottomano. Sì, il Messico era strano.

Dopo alcuni giorni, portai mia figlia a dar da mangiare agli scoiattoli dei Vivai di Coyoacán e riuscii in una goffaggine che posso solo qualificare come «molto intellettuale»: un frammento di buccia di nocciolina mi si conficcò nell’occhio. Mia madre mi trovò che ero alle prese con un lavaggio brutale. «Non preoccuparti», la stupenda frase che ripete da oltre mezzo secolo fu seguita da un’altra sorprendente: «C’è una mia amica oculista nella salumeria qui accanto». Mia madre chiese a Eufemia di sostituire la dottoressa nella fila per il prosciutto di tacchino e di approfittarne per comprare della mortadella. Eufemia è riuscita a far sì che tre decadi della nostra famiglia orbitassero attorno alla sua lealtà e alle ricette che ha portato da Oaxaca. Nonostante la torcia da esploratore di mia madre, mancavano gli strumenti per una visita appropriata. L’oculista non vedeva bene. Fu il momento dell’epifania: «Ho una lente d’ingrandimento», disse mia madre. Si diresse verso uno degli scatoloni della sala, srotolò un tappeto e potemmo ammirare il brillare incerto di centinaia di lenti. «Ho anche dei telescopi», aggiunse. Mi esaminarono con un piccolo telescopio coreano. L’amica di mia madre intervenne con la perizia dei grandi medici: mi toccò solo una volta, quando la preda era a portata di mano, e rifiutò di essere pagata. Il sollievo era superato solo dallo stupore che una particella così piccola potesse provocare tanto scompiglio. Dopo pochi minuti, un’altra vicina, padrona ufficiosa del negro, un cane semirandagio a cui mia madre dava da mangiare, bussò alla porta per vedere come andava il mio occhio. Il pezzetto di guscio obbligò mia madre a parlare delle sue lenti d’ingrandimento. Sì, le vendeva. Perché lo teneva segreto? Ci sono argomenti di cui si parla in famiglia e argomenti di cui si parla solo al di fuori della famiglia. Da quanto venni a sapere quel giorno, uno di questi è il commercio di lenti. Non insistetti. Dopo tutto, le mie scatole e i miei mobili nella sala conferivano normalità al mucchio di lenti e telescopi. Chiesi a mia madre il permesso di raccontare l’aneddoto. Le sembrò la forma perfetta del segreto: «Tanto nessuno ti crede!» niente mi sembrò più logico o appagante che stare lì. Dove mai mi avrebbero soccorso in quel modo? Qualche minuto dopo bussarono alla porta. Due donne con indosso degli scialli volevano delle lenti d’ingrandimento. Ricordai che anche le volte precedenti, quando avevo aperto la porta e mi avevano chiesto delle lenti, avevo notato persone difficilmente associabili a questo strumento. Non sembravano gioiellieri, né filatelici, né detective in impermeabile. Erano signore che chiedevano lenti come avrebbero potuto chiedere del prezzemolo. Una nuova usanza popolare le portava a indagare il mondo da vicino? «Cosa ci fanno con le lenti?», chiesi a mia madre. «Suppongo che guardino delle cose», mi disse, «gli occhi non si usano per questo?» Avvertii una fitta nel punto in cui si era conficcato il guscio della nocciolina: non ero autorizzato a contraddirla. Nel pomeriggio vidi mia madre fare i conti con Eufemia. Si portavano il foglio vicino agli occhi per vedere i numeri. Chiesi perché non usassero una lente. «Noi vendiamo lenti», disse mia madre in tono di ovvietà. Rimasi lì come davanti a una lente d’ingrandimento che rendeva la normalità meravigliosamente indecifrabile. Ero tornato.

[Juan Villoro, da “Vendete lenti d’ingrandimento?” in C’è vita sulla terra?]

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