Tempo lettura: 12 minuti

MILANO – Ai bambini spiega che il suo compito è portate “quanta più gente possibile in teatro, dove si crea tanta bella musica”. Gli undici minuti di applausi che all’Inaugurazione della Stagione d’Opera alla Scala hanno accolto l’audace prima di “Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk’ del compositore russo Dmitrij Šostakovič dicono che è sulla buona strada.

Da ottobre, Damiano Kazuo Afrifa è Responsabile dell’ufficio stampa, web e social media del Teatro alla Scala, sotto la direzione dell’inossidabile Paolo Besana. Ha una laurea in Filosofia presa a Firenze, un diploma in Pianoforte al Conservatorio Mascagni di Livorno e uno in Musica da camera al Conservatorio Versi di Milano. È pratese. In poche parole, questo 35enne che occupa uno dei posti più ambiti nel mondo della comunicazione culturale è riuscito ad annullare il pregiudizio per eccellenza in Toscana: il campanilismo.

Con lui i maledetti toscani diventano benedetti toscani, portatori sani di cultura e principi: amore per il Rinascimento, per la musica, per la curiosità che diventa esplorazione. E anche risultati professionali.

Quando Damiano si scopre appassionato di musica? Già da bambino avrebbe voluto essere un musicista?
“Il mio primo lavoro dei sogni, in realtà, è stato il benzinaio”.

Perché, scusi?

“Semplice: quando andavamo a fare benzina – mia madre guidava, io dietro con il mio migliore amico Francesco – vedevamo i portafogli dei benzinai gonfi di banconote, senza sapere che quei denari non appartenevano a loro. E quindi noi sognavamo di avere una stazione di benzina. La nostra idea era di lavorare insieme, io e Francesco, perché eravamo e siamo ancora molto legati, in un’attività che credevamo molto redditizia”.

Però, non è diventato benzinaio.

“No, no. C’è stato anche il sogno dello sport, come per tanti bambini: io e Francesco, sempre, giocavamo a pallone e sognavamo di diventare calciatori, nella Fiorentina. Giocavo come centrocampista nell’Ambrosiana di Prato, ma visto che sono sempre stato assai realista, mi sono reso conto abbastanza presto che non sarei mai diventato un calciatore. Comunque ho vissuto in modo abbastanza sereno questa presa di coscienza”.

E la musica come entra nella sua vita?

“Mentre ero impegnato in tutte queste attività, ho iniziato a a “giocare” con la musica grazie a una tastiera che avevo in casa. Era di mia sorella che era più grande e andava alle medie, ma io ci passavo le giornate già da quando avevo quattro e cinque anni. Arrivato a 6 anni, la mia mamma si rese conto che la mia attrazione per il mondo dei suoi era davvero molto forte e quindi mi portò a Prato al CAM – Centro Artistico Musicale, una scuola di musica gestita da Andrea Nesti. Ecco, Nesti è stato il mio primo maestro di pianoforte: aveva un approccio non ortodosso. Grande conoscitore della musica, molto attratto dal contemporaneo e dall’avanguardia aveva un metodo didattico che tendeva a disinnescare quella necessità di avere un retroterra, una base di solfeggio, di tecnica: aveva un approccio alla musica più intuitivo, legato anche all’improvvisazione, ma sempre studiando pezzi di repertorio.
Durante il mio ultimo anno con lui mi ricordo che studiai la Sonata opera 27 n° 2 il “Chiaro di Luna” di Beethoven. La studiai tutta (non solo il primo movimento): il terzo movimento – “Presto con fuoco” è una pagina molto complessa – la studiai pur non avendone le competenze tecniche. Tuttora non so come ci sia riuscito: avrò avuto 13 anni. A quel punto andammo alla Scuola Verdi di Prato e fui preso da Giorgio Morozzi”.

E con Morozzi come si è trovato?

“Morozzi sosteneva che serviva costruire una base tecnica ed è riuscito a darmela senza farmi disamorare della musica. Eravamo sulla stessa lunghezza d’onda e tuttora lo rammento con enorme stima. Ho fatto esami da privatista in conservatorio. Quello per il quinto anno comporta lo studio delle Suites inglesi e delle Invenzioni a tre voci di Bach e per me ha comportato anche l’innamoramento per questo compositore. Non so spiegare perché sia scattato questo innamoramento: so che la sua musica fa risuonare una parte di me che è profonda, non decifrabile. Così deve restare: per me Bach ha sempre conciliato la componente intellettuale ed emotiva, che è il compito della musica. Per me la musica, infatti, deve tenere insieme l’essere, in tutte le sue componenti, compresa quella fisica. Il benessere che viene dalla musica è un fatto olistico, sintetico, è un fatto complessivo, di percezione di appartenenza a un’unità. Questo Bach me lo fece provare subito e infatti ho avuto una certa facilità anche a studiarlo, non solo a sentirlo. Il mio temperamento si sposava benissimo con Bach e, in seguito, Mendelssohn che recuperò Bach”.

Una vita densa la sua in quegli anni.

“Abbastanza. Quando sono all’ottavo anno di studi musicali, cambia l’ordinamento e devo entrare in conservatorio Livorno, mentre sono iscritto alla facoltà di Filosofia a Firenze. Mi concentro sulla filosofia teoretica, mi laureo con una tesi su Husserl ed è un mondo che mi attrae enormemente perché l’astrazione di mettere in dubbio la tua idea è molto divertente”.

Perché è andato al conservatorio Mascagni a Livorno e non al conservatorio a Firenze?

“Perché a Livorno c’era Daniel Rivera, un grandissimo pianista argentino che ha vinto il premio Pozzoli, che suonava con la straordinaria pianista argentina Martha Argerich. Fra l’altro prima dell’università, in quarta superiore, da studente del liceo linguistico, trascorsi otto mesi a Berlino, città di cui mi sono innamorato. Abitavo al Tiergqrten, quartiere dove c’è la Filarmonica con un programma incredibile di concerti. Ero a Berlino da appena una settimana e ho avuto la possibilità di ascoltare la Settima di Beethoven alla Konzerthaus, nel contesto perfettamente allineato – quella pagina sinfonica era quello che doveva essere: suonata nel modo in cui doveva essere suonata, da chi doveva suonarla, nel luogo al quale apparteneva. Quella pagina sinfonica stava raccontando la cultura nella quale io mi ero ritrovato. Lì c’è stato ulteriore innamoramento: Beethoven dopo Bach”.

Berlino pare averla segnata profondamente.

“Stare a Berlino, anche cambiare registro linguistico, ha creato dentro di me cambiamenti tali per cui credo che quegli otto mesi sono il motivo vero per cui io sono quello che sono: cambiare il punto di vista, provare a mettere in dubbio, il fatto che le teorie della conoscenza siano decine e decine e che nessuno abbia ragione in fondo, è una buona medicina contro l’assolutismo, a favore del relativismo, una via per comprendere gli altri. Anche solo il fatto di entrare in un sistema linguistico nuovo, impone al cervello di rimettere in discussione tutti i propri punti di riferimento, anche nella costruzione estemporanea di un discorso perché nelle frasi secondarie il verbo in tedesco va in fondo alla proposizione, si declina l’articolo e così via”.

Quando lei inizia a giocare con la tastiera, sua madre si accorge della sua attrazione per i suoni perché è una musicista o perché è una mamma attenta?

“No, nessuna competenza specifica. In generale tutto quello che ho fatto, l’ho fatto arrivandoci da solo perché i miei genitori mi hanno assecondato nelle mie passioni, nei miei interessi: in questo sono stati eccellenti. Hanno intercettato quello che mi piaceva. Ad esempio mio padre, che era dentista, ha sempre adorato il jazz e quindi quando ha iniziato a percepire che la musica avrebbe occupato una parte della mia vita non ha fatto altro che esultare e sostenermi: per lui era una gioia immensa”.

E sua madre?

“Era un’insegnante e storica dell’arte. Quando ero alle medie, su mia proposta (insistente) la domenica prendevo la mia mamma e le chiedevo di portarmi a vedere questo o quel monumento. Prenotavamo gli ingressi e lei che non si raffrontava da anni con il Rinascimento – perché era più esperta di arte moderna – si lasciò conquistare da questo periodo straordinario. La prima domenica, andammo alla cappella Brancacci nella chiesa del Carmine, dove tutto ebbe inizio: lì c’è la Cacciata dal Paradiso di Masaccio che è il momento in cui tutto cambia, lo spazio non è più quello giottesco. E da lì ci siamo visti tutta Firenze. Questa passione per la speculazione, per la curiosità me l’hanno trasmessa i miei genitori, in particolare sul fronte umanistico, grazie alla mia mamma, ai racconti su mio nonno che non ho conosciuto, ma era un collezionista di quadri. Grazie a lui posso beneficiare, con mio figlio e la mia compagna, di un’acquaforte di Fattori, di due quadri di Maccari: io credo tanto nel fatto che ci si debba circondare di cose che abbiano un senso; momenti senza senso in capo a una giornata ce ne sono tanti. La mattina ci si rivolge verso quel bue disegnato da fattori e allora un senso lo si intravede. Oppure si ascolta della musica e abbiamo una motivazione. Ha molte forme quello che sono andato cercando per tanto tempo: una forma è la musica, una forma è l’arte figurativa, una forma è la letteratura e la poesia: è per questo che la curiosità è un propulsore a servizio della felicità. La curiosità può darci una grossa mano per tentare di stare bene nella vita, secondo me. E anche qualora fosse fallimentare, rispetto a questo scopo, quanto meno ci tiene occupati: se uno è curioso va in giro, cerca, legge, fa. A un certo punto si distrae da se stesso, ma in modo sano”.

É questa curiosità insaziabile che l’ha portata a Milano?

“Direi di sì. Finito il conservatorio a Livorno e l’Università a Firenze, sono andato a Milano per una specialistica in Musica da camera con Emanuela Piemonti che per me è stata una maestra fondamentale. Mentre studiavo pianoforte, mi laureavo, imparavo a conoscere il Rinascimento mi ero reso conto che un concertista non sarei mai diventato. Questo essere condannati, nel mio caso, a un pragmatismo, a un realismo eccessivo comporta che inizi a fare i conti con la realtà molto presto e non dico che rinunci ai sogni ma cerchi una strada un po’ più a misura tua. Se Beethoven non ci avesse creduto fino in fondo, noi non avremmo la Nona Sinfonia e, in effetti, per la statistica, lui aveva tutti i numeri che gli andavano contro di lui. Ma lui ci ha creduto, malgrado avesse tutto contro. Io, invece, mi sono impostato la vita vedendo sempre in anticipo sulla carta quello che poteva funzionare”.

Ma perché ritiene che non sarebbe mai diventato un concertista? Non si riconosceva il talento?

“In parte perché non mi riconosco quel talento, in parte perché mi guardavo intorno e vedevo pianisti che suonavano brani molto più complessi, studiandoli in molto meno tempo di me, facendo molta meno fatica di me. Vedevo un insegnante che era Rivera che era bravissimo che non capiva perché un passaggio non veniva, perché a lui gli veniva spontaneo. Ma lì c’è la differenza fra un grande musicista e un grande didatta.
Per me studiare con Emanuela Piemonti è stato fondamentale perché a lei un certo passaggio non veniva naturalmente, ma sapeva come risolvere il problema. E nonostante i passaggi che non le venivano naturalmente aveva un suono incredibile. Emanuela Piemonti, quando metteva una mano sul pianoforte, con qualsiasi cosa sul leggio, veniva fuori un suono che io non ho più ritrovato. Io non avevo punti di riferimento per ripartire, ma io con lei sono ripartito. É stato bello studiare con lei perché mi ha ricondotto all’origine, al suono e anche al piacere di fare musica insieme. Io sono andato a Milano a studiare musica da camera, in più di uno ma meno di un’orchestra: duo, trio, quartetto, quintetto e così via. Per me quella è la dimensione terapeutica per coloro che amano suonare insieme, ma non per per gareggiare. Non era quello il mio obiettivo”.

Quindi lei non è mai stato un musicista, non si è mai esibito?

“In realtà alla fine del primo anno di studio a Milano, successe l’impossibile: Emanuela Piemonti mi mise insieme a una flautista di Gubbio – Ilaria Ronchi, oggi flauto dell’orchestra sinfonica di Milano, dove ho anche lavorato – e abbiamo iniziato a suonare insieme e ci siamo trovati sotto la guida della Piemonti. Eravamo un po’ una sua creatura: Emanuela ci aveva visto lungo, perché noi due Ilaria ed io eravamo coetanei, entrambi del centro Italia, entrambi avevamo lo stesso modo di ragionare sulle cose e alla fine arriva il premio del conservatorio e nella categoria “Musica da Camera”, contro ogni pronostico, aspettativa, desiderio (neanche avevamo studiato per arrivare a quello) arrivammo terzi e vincemmo una borsa di studio. E questo risultato mi riabilitò ai miei occhi come pianista e mi rimisi a studiare alcuni brani, come la Sonata 111 di Beethoven che è la sua ultima composizione, riuscendo a “portarla a casa” discretamente. Quindi si è conclusa abbastanza bene la mia parabola: l’anno dopo mi sono diplomato e ho iniziato a lavorare per una televisione, per Sky classica”.

Quale era il suo ruolo a Sky classica?

“Inizio prima in redazione, poi divento autore di documentari sulle stagioni concertistiche dei teatri. Da lì divento ufficio stampa dell’Orchestra Sinfonica di Milano per sei anni e poi c’è stato il bando alla Scala, ho preso coraggio e ho partecipato. L’ho vinto e così sono diventato Responsabile ufficio stampa, web e social media del Teatro alla Scala”.

Perché cambiare la carriera da musicista, concertista a comunicatore della musica?

“Provo a rispondere così: se uno ama la botanica, ha due strade per realizzarsi: apre la sua piccola serra, fa i suoi innesti e si vive la sua passione; l’altra strada è divulgare la bellezza delle piante. Io quando scopro scopro qualche cosa di bello o studio qualche cosa di nuovo, non vedo l’ora di tornare a casa e raccontarla. Mi piace condividerla. Io trovo le cose talmente entusiasmanti, non vedo l’ora di incontrare qualcuno che mi dica: “No, dai, ma è fantastico”. Da una sonata di Mozart a un’opera di Donizetti a un balletto su musiche di Stravinsky per me è tutto talmente grandioso che il mio lavoro è che se ne parli il più possibile e che più persone possibile vengano a vedere le produzioni.
E in più, adesso, si tratta anche di un fatto di civiltà perché, per me, il punto più alto di una civiltà (che è quella occidentale, ma che è alla deriva e sta morendo, forse su premesse anche giuste, visto che è stata predominante e oppressiva su tutto il resto del mondo) è proprio l’arte, in tutte le sue declinazioni: musica classica, sinfonica, opera, balletto”.

Malgrado la responsabilità, sembra che non senta il peso del ruolo.

“Stare in un posto (la Scala) che produce quella roba lì – opera, balletti, concerti – per la mia salute è fondamentale perché è un’isola felice, ma mica siamo pochi. Non stiamo parlando di cultura di nicchia: è un mondo grande questo”.

Un progetto?

“Il mio progetto nella vita è fornire a mio figlio Guido più strumenti possibile per conoscere più cose possibile, perché vorrei metterlo in condizione di fare meno fatica possibile per diventare un essere umano felice. Vorrei che avesse gli strumenti non solo per conoscere, sapere, ascoltare quell’opera, andare a vedere una mostra: questo si fa. Ma vorrei soprattutto educare mio figlio a essere delicato, a prendersi cura, a non credere sempre che ti spetti qualcosa e ad avere fiducia nelle persone. Non c’è più grande fallimento per me nella vita che educare delle persone che, poi, diventano dei misantropi o dei pessimisti. Il più grande successo di una vita è riuscire a tirare su qualcuno che è ottimista, crede negli esseri umani, crede nella storia, nella natura. Ha speranza. Vorrei educare a credere, a crederci”.

Quando tuo figlio ti chiede che cosa fai, come glielo spieghi?

“Per ora non me lo chiede. Gli dico solo: “Babbo va in teatro” e gli piace. Quando crescerà un pochino, gli dirò come ho spiegato a un ragazzino, a un figlio di amici: “Faccio sapere alle persone che altre persone fanno delle persone. Io devo dire a più persone possibili che in quel teatro si fanno delle cose”.

Inventi mai storie a tuo figlio?

“Certo”.

In queste conversazioni, ti ha mai posto una domanda che ti ha colto impreparato?

“Quando vedevamo Re Leone, ci siamo sentiti chiedere: “Scar è cattivo?” in cuor tuo ti viene da dire che è peggio di cattivo. Ma gli abbiamo detto che è birbante e probabilmente se è così birbante è perché ha sofferto anche lui: che ne sappiamo quante ne ha buscate da piccino? Poi hanno fatto il prequel e viene fuori tutta la storia. Ma io ho sempre sospettato che ci fosse qualche cosa sotto la cattiveria di Scar. Scar è birbone perché anche a lui hanno fatto qualche cosa: è sempre meglio essere indulgenti. E io e la mia compagna vogliamo insegnare a nostro figlio a non giudicare.
Infatti le parole più belle nella nostra casa, sono “scusa, grazie, per favore” perché è un gesto di grande forza dire scusa. Il complemento più bello della mia compagna è proprio questo: “Tu cambi idea, sei capace di cambiare idea, non come esercizio di stile”. Per me è un gesto di forza cambiare idea, abbandonare una certezza, tant’è che io ne ho molto poche di certezze. So che tramontano veloci”.

Uno dei problemi dei teatri è il rinnovamento del pubblico. Attirare bambini e adolescenti in sala. La Scala come si sta muovendo?

“Uno spettatore su tre del Teatro alla Scala ha meno di 35 anni. Un dato eloquente che suggerisce che l’opera e il balletto conservano un’attrattività sulle nuove generazioni, e che l’offerta culturale del Teatro riesce a soddisfare le esigenze del pubblico di ogni età. Proprio per questo, il Teatro alla Scala rinnova e rafforza il legame con il pubblico Under30: all’attività del Servizio Promozione Culturale che ogni anno porta in teatro decine di migliaia di ragazzi si aggiunge il progetto La Scala Under30 che dal 2008 permette a chiunque abbia meno di 30 anni di assistere in anteprima allo spettacolo inaugurale della Stagione. L’anteprima è l’occasione per scoprire il Teatro e conoscere le possibilità di accesso agli spettacoli con il Pass Under30/35 e le formule di abbonamento dedicate.  La Scala è un teatro aperto, come lo sono le altre realtà della città. Però, il lavoro dei teatri e delle fondazioni è un lavoro che avviene nell’ultima fase della filiera culturale. Il lavoro vero, che personalmente ritengo decisivo per il rinnovamento del pubblico, deve essere fatto all’inizio della filiera: in questo i teatri hanno poco margine. Fintanto che a scuola si insegna chi è Manzoni o Dante o (magari) Piero della Francesca, ma non si insegna chi è Rossini o Bellini c’è poco da fare. Ma se non c’è questa volontà, non si crea neppure il senso di vergogna di non sapere chi sono i grandi compositori italiani, perché non si lascia percepire questa carenza come grave mancanza. Ma questo è un problema annoso che affonda le radici nella riforma dell’istruzione già di fine Ottocento, quando la musica veniva estromessa dai piani dei studio e relegata nei conservatori. C’è perfino una lettera di Francesco De Santis, grande intellettuale, grande dantista, che però diceva che la musica e la danza sono discipline “da buffoni”, non servono per educazione morale dei cittadini. Questo è un po’ il peccato originale. Ma possiamo risalire alla Controriforma, quando Lutero si appropria della musica come strumento di aggregazione dei fedeli e, infatti, la musica nella religione protestante ha un ruolo fondamentale – tutti suonano, tutti cantano – e nei paesi a maggioranza protestante non ci si interroga sul ricambio di pubblico. Da noi, invece, si percepiscono gli effetti nefasti di queste scelte educative, perché abbiamo smesso di insegnare chi era Puccini e ora non sappiamo più chi mettere in sala”.

 

Segui le nostre news sul canale WhatsApp
CLICCA QUI

Per continuare a rimanere sempre aggiornato
Iscriviti al nostro canale e invita