Secondo Paul Veyne, forse il più grande esperto vivente di Roma antica, «la verità è una ideologia». Il famoso archeologo francese utilizza questa espressione per spiegare la categoria mentale che permetteva angli antichi di credere ai loro miti, senza venir meno alla logica razionale.

La verità come ideologia è una affermazione apparentemente pericolosa ma che in realtà altro non vuol dire che ognuno, ogni popolo, ogni cultura filtra i fatti e la realtà per mezzo di propri «programmi di verità». E ciascuno di questi «programmi» ha uno scopo, un fine, un obiettivo. Questo non vuol dire certo che non esista una verità oggettiva dei fatti ma ciò invita a riflettere sull’importanza, non trascurabile, di quella percentuale dei fatti costituita, appunto, da interpretazione. In parole povere i fatti sono in parte costituiti dalla stessa interpretazione che di questi si tende a darne.

Ne è una prova drammatica la diversità di narrazione storica, a cui assistiamo in questi giorni, della guerra in Ucraina. Per Kiev e l’Occidente si parla di invasione, per Mosca di liberazione. In questo caso la narrazione storica della Russia spinge all’estremo la categoria del «programma di verità» tanto da sfociare nel revisionismo e nel palese ribaltamento strumentale dei dati di fatto.

La chiave di tutto consisterebbe però nel sapere davvero quanto il governo russo creda intimamente alla tesi della liberazione e quanto invece sia cosciente di aver costruito a tavolino un «programma di verità», una narrazione storica funzionale ai propri obiettivi bellici. Come spiega lo scrittore italo-russo Nicolai Lilin, in una intervista rilasciata a Davide Nitrosi, pubblicata su «La Nazione» venerdì 25 febbraio 2022, «Per la Russia i veri secessionisti sono a Kiev, dove sostengono la politica americana, impediscono ai russi che vivono in Ucraina di parlare russo. Bisogna capire come ragiona […] Perché il sovrano legge la realtà attraverso il prisma che gli forniscono i suoi consiglieri».

Anche l’Occidente scopre in questi giorni un rapporto conflittuale con le proprie «verità interiori». La difesa di quei valori che caratterizzano il mondo libero – la democrazia, la libertà, la sicurezza e la pace – non è incondizionata “senza se e senza ma”, ma si arresta davanti ad un ubi maior. La terza guerra mondiale atomica è da evitare a tutti i costi, questo è certo, ma l’Occidente non ne uscirà comunque bene: a confermarlo le parole del primo ministro Ucraino che ha ricordato al mondo intero che l’Ucraina è sola, poiché tutti hanno paura. Evitare la terza guerra mondiale abdicando ad una energica difesa dei valori richiede, da parte dell’Occidente, un’ammissione tanto difficile quanto imbarazzante, ovvero che la difesa di tali valori, dei quali gli Stati Uniti e l’Europa sono spesso brillanti esportatori, ha un limite di opportunità e di applicabilità determinato dalla potenza del nemico.

Le democrazie occidentali tutelano la pace e il benessere delle loro collettività (oltre alle aspettative dei loro elettorati), mentre i regimi totalitari non tengono conto del bene collettivo e sono pronti a prendersi dei rischi (e commettere dei crimini) che solo il totalitarismo può consentire. Proprio la consapevolezza di questo notevole scarto ha permesso alla Russia di azzardare l’attacco all’Ucraina. Ciò che il governo di Mosca ha messo in atto richiederebbe una reazione che le democrazie occidentali non possono e non vogliono permettersi. E questo, al Cremlino, lo sapevano bene.

Da una parte “la legge del più forte”, dall’altra la logica del “male minore”; e nel mezzo un popolo disperato, quello ucraino, che da solo si fa scudo estremo dell’Europa davanti all’avanzata russa, in nome di quei valori di libertà e democrazia per i quali sarebbe stato disposto ad entrare, a pieno titolo, nel mondo libero occidentale.

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