SIENA – Un altro anno senza Palio. Quattro carriere perdute per sempre, che nessuno ci ridarà più.

Nel 2020, in piena pandemia, oggettivamente non c’erano le condizioni nemmeno per pensarci, a correre il Palio. I senesi civilmente e direi doverosamente hanno preso atto di una realtà, di fronte al dramma che il mondo sta vivendo. La speranza si è spostata, in automatico, al 2021: l’anno della campagna vaccinale estesa, della speranza di una possibile ripresa. Contrariamente a molte previsioni, il 2021 è stato anche l’anno in cui, dopo che il Palio di luglio è stato annullato, si è assistito alle celebrazioni per la vittoria della Nazionale ai Campionati Europei di calcio. Assembramenti oceanici, nessun dispositivo di protezione. Scene di giubilo in Fortezza e anche in Piazza del Campo.

Ci hanno detto ragionevolmente che se “gli altri” hanno comportamenti irresponsabili non necessariamente dobbiamo averli anche noi; facendo capire che in ogni caso, trattandosi il Palio di manifestazione autorizzata e non spontanea, non sarebbe stata permessa e chiuso.

Le Contrade hanno dimostrato la loro grande civiltà non sottraendosi alle indicazioni, all’uso delle mascherine, alle limitazioni nel Giro e in tutte le loro feste. Nelle Contrade si richiedono i green pass, vengono presi nomi, cognomi e numeri di telefono, vengono attuati i distanziamenti.  Abbiamo fatto e facciamo tutto quello che deve essere fatto, spesso con maggiore scrupolo di quanto accade in altri contesti, a riprova – se mai ce ne fosse bisogno – che le Contrade sanno autoregolamentarsi.

Questo non è bastato ad allentare le maglie di un controllo che è fin troppo facile in soggetti identificati e identificabili come i contradaioli, mentre sembra venire meno in altre situazioni. Difficile non pensare che in fondo l’organizzazione delle Contrade sia vista come qualcosa da marcare stretto, perché indice di un’indipendenza che, storicamente, al potere non piace: la storia ci insegna che più il potere è schiacciante e arrogante e meno questa autogestione è tollerata.

C’è da considerare anche un aspetto non marginale: l’aver perduto la Banca, che oltre ad assicurare ricchezza assicurava anche il prestigio e il rispetto dato dall’indipendenza economica e dal potere del denaro, significa essere di fatto un popolo indebolito.

Si fa strada l’idea che si punti alla normalizzazione della città: dopo averne piegato la forza economica, l’obiettivo è soffocarne l’anima, con buona pace di tutti. Così Siena impara ad essere fiera, ad essere speciale, ad essere esempio di civiltà e di valori per tanti. E poi il Palio, per alcune istituzioni come la Prefettura e la Questura, è un problema: di responsabilità, di ordine pubblico, di organizzazione.

In questi tempi confusi, la Città è “percossa e attonita”, come smorzata e sottotono: l’ombra di sé stessa. Alcune cose sembrano apparentemente normali, ma si avverte che non lo sono affatto: appaiono come il simulacro di quelle che erano e dovevano essere. Manca la sacralità. Mancano la passione e l’emozione. Manca, appunto, l’anima: l’auspicio è che sia come brace che cova sotto la cenere.

Non possiamo pensare che tutto questo sia dovuto solo a cause esterne, a un’ostilità impalpabile ma non per questo meno percepibile. Forse ci manca quello spirito che animò i senesi in Etiopia, che il 17 aprile 1938, straziati dalla nostalgia, organizzarono un qualcosa di vagamente simile al Palio, giusto per sentire aria di casa. Erano lontani, erano in guerra, avevano paura, ma l’essere senesi aveva prevalso, sia pure per un momento: era stato testimonianza e bandiera di vitalità.

Certamente non è il caso di emularli nel modo che la storia ci ha tramandato, ma è il caso di cominciare, da subito, una riflessione sul 2022 e fare – nei modi dovuti – pressione sulle Autorità con la ferma volontà di far tornare le Contrade alla vita, alle loro attività consuete, agli eventi che ne scandiscono il calendario e che vanno dalle celebrazioni per Sant’Ansano a Santa Lucia, da San Giuseppe alle Feste Titolari e ai Giri in Città, dalle cene alle attività culturali e infine al Palio.

In teoria nel 2022 la situazione dovrebbe migliorare in maniera significativa, grazie alla campagna vaccinale che vedrà una vastissima copertura che riuscirà sempre di più a tenere sotto controllo il virus, affinché si possa ritornare alla normalità in tutto. In parte, però, bisogna anche volerlo fermamente, senza assuefarsi alla situazione creata dalla pandemia. I Priori devono avere il coraggio e la determinazione di veicolare la volontà del popolo; il popolo deve esprimere ai Priori questa volontà e sostenerla. Questo si fa con la partecipazione e l’unità di intenti, che va dal singolo contradaiolo agli Onorandi, al Magistrato delle Contrade, all’Amministrazione Comunale nel suo insieme.

Le limitazioni prospettate quest’anno, sia pure in parte giustificate dallo stato di pandemia, sono per certi versi assurde e quasi offensive: le sedie in Piazza, per esempio, che avrebbero bisogno di essere fissate (nel caso, mi aspetterei che la Soprintendenza insorgesse e che qualcuno facesse notare quanto tutti gli oggetti di intralcio possano essere potenzialmente pericolosi, visto che il Palio non è uno spettacolo teatrale o un concerto di musica classica).

Limitazioni poco comprensibili, considerando quello che vediamo in altre manifestazioni e in altre parti dell’Italia, anche molto vicino a noi; perché se non ci sono le condizioni per il Palio, non ci sono le condizioni per tante altre cose che invece vengono tollerate, chiudendo un occhio e anche tutti e due. Comincia a serpeggiare l’idea di essere presi in giro, ma di dover accettare ogni cosa senza fiatare, perché da un momento all’altro una firma su un foglio di carta intestata può proibire tutto. Il buonsenso e la ragionevolezza – doverosi e intelligenti, insieme al rispetto per le autorità costituite – non devono diventare in noi rassegnazione e condiscendenza. La prudenza e la cautela non devono diventare codardia e pusillanimità.

Noi dobbiamo ricordarci chi siamo e non dobbiamo accontentarci. Dobbiamo puntare a riprenderci la nostra vita chiedendo con l’autorevolezza che ci è data dalla nostra storia di essere trattati come gli altri cittadini italiani, con in più il buonsenso che deve essere applicato – e che fino a tempi recenti è stato applicato, da dirigenti illuminati delle istituzioni – ad un meccanismo particolare e delicato come quello che sottende alla vita sociale e culturale di Siena.

Dove sta la nostra forza, quella da far valere in ogni sede e in ogni modo lecito? Sta nel bene immateriale, ma reale e concreto, della nostra civiltà secolare. Sta nella nostra cultura, nel valore della nostra socialità e delle nostre tradizioni, che hanno bisogno, prima ancora che di essere amate, di essere comprese.

A tutti coloro che, venuti a Siena, hanno ascoltato, che hanno capito, che hanno goduto Siena svolgendo il proprio compito nel pieno delle proprie funzioni e nel reciproco rispetto, dedicandole attenzione e amore, la Città è stata ed è riconoscente: in molti casi si mantengono rapporti personali cordiali e duraturi. Chi non ha compreso Siena, chi le ha mostrato antipatia e ostilità, non lo abbiamo mai rimpianto: di quelli che sono passati senza essere riusciti a entrare nella storia e nel cuore dei senesi e che se ne sono andati facendo tirare un sospiro di sollievo, appena si ricorda il nome. Perché alla fine loro passano, Siena resta.

Ogni volta che si dimostra insofferenza verso i tamburi, verso i simboli, verso le manifestazioni cittadine, verso i canti e le bandiere (è successo anche in un passato recente, quando un arcivescovo era infastidito dalla presenza dei tamburi in Duomo), si calpestano brutalmente una cultura e delle tradizioni secolari. Di più: si calpestano i sentimenti dei contradaioli e dei cittadini senesi e di quanti, in Italia e nel mondo, amano questa città e la sua Festa.

E per questo, no, davvero: non ci sono le condizioni.

 

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