Alzi la mano chi ricorda Manfred. Era un artista da strada che arrivava a Siena quando sbocciano i fiori e volano le rondini e se ne ritornava a casa (dove? Chissà) con le prime piogge. Attore stagionale che come palcoscenico calcava l’anello di piazza del Campo e come comparse usava le migliaia di turisti che, per tutto il giorno, si fermano ad osservare incantati la conchiglia di cotto, i palazzi patrizi che la circondano e il Palazzo Pubblico con la sua torre.

Manfred
Manfred

Riempiti gli occhi da tanta armonia e bellezza, come vittime di una senese sindrome di Stendhal, i malcapitati finivano per essere “vittime” dal buon Manfred per piccoli, innocenti, scherzi. Il pubblico era quello dei locali che sulla piazza si affacciano, dalla Costarella a sotto Palazzo Sansedoni. Un fischietto lo strumento principe delle sue performance. Con i suoi guizzi, le trovate, la mimica che non aveva bisogno della parola sapeva far nascere un sorriso anche nel più arcigno dei passanti. Dopo essere venuto per molte primavere, fu mandato via dal Comune, chissà se aveva fatto uno dei suoi innocenti scherzi ad un intoccabile. Era bravo, però nessuno si sognò mai di farlo recitare ai Rinnovati né ai Rozzi.

Poi, fu il tempo dello sfortunato Michel Lewandowski, polacco, che i senesi avevano preso a conoscere tra tra Banchi di Sopra e piazza Tolomei, tutto vestito e truccato d’oro che, con la sua cinepresa, si faceva fotografare da turisti e passanti per pochi spiccioli. Era diventato una presenza così familiare che i senesi gli avevano affidato il soprannome di “Omino d’oro”, come si affibbiano i nomignoli alle persone di casa e agli amici. Morì, solo come si muore tutti, in un piccolo appartamento che affittava quando veniva a Siena. E a Siena è stato sepolto. La sua scomparsa generò un afflato di solidarietà e commozione con i fiori deposti dove ogni giorno da anni riprendeva con la sua cinepresa il film della vita senese che gli scorreva davanti. Era bravo, però nessuno si sognò mai di fargli girare un film a Cinecittà.

Poi è arrivato Clet Abraham. Non sapevamo che faccia avesse ma col tempo abbiamo imparato a conoscere il suo gesto e riconoscerlo. Si diverte a truccare i cartelli stradali con l’aggiunta di figure e segni grafici che ne modificano il senso per farci strappare un sorriso. A volte ci riesce, a volte no. Come quella di Manfred e di Michel la sua è street art, perché proprio sulla strada sovverte il normale ordine delle cose (e dei cartelli). È bravo, Clet, c’è chi arriva a definirlo geniale anche se definirlo artista sembra un azzardo. Ahimè, a lui, in questo tempo confuso di capitali e di cultura da trovare a buon mercato, qualcuno si è sognato di offrire nientemeno che Palazzo Pubblico.

E questo a mio parere è un grosso errore, soprattutto di arroganza nei confronti della storia del Palazzo e di quel messaggio di bellezza e armonia che quella facciata riesce ancora a trasmettere e che non ha certo bisogno di superfetazioni, seppure temporanee. Benché il suo gesto di sberleffo all’ordine costituito possa essere condivisibile (a volte) e l’atto goliardico far sorridere (a volte), queste zingarate on the road sono volontarie azioni illegali (sempre), perché contravvengono scientemente a precise norme di legge. E un Comune dovrebbe, in primo luogo, rispettare e far rispettare le regole a mo’ di esempio per i suoi amministrati. Come fece lo stesso Comune di Siena nel 2013 e 2014 rimuovendo le notturne incursioni di Clet nella cartellonistica cittadina.

Ma ora, dopo la fase clandestina, Clet ha deciso di prendersi sul serio, uscire allo scoperto, andare in giro facendosi chiamare, per brevità, artista. Non disdegnando di lavorare per commissione, specie pubblica, se glielo consentono. E così l’atto libertario e anarchico ha finito per perdere la sua purezza, il gesto artistico (se qualcuno lo vede) la sua efficacia. Il giullare di Corte non fa ridere come i saltimbanchi di strada. Altra cosa (forse) se il nostro fosse salito nottetempo sul Palazzo Pubblico per apporre il suo cupo segno, che assomiglia ad un banale sofficino in verità, tra le due finestre sotto il monogramma di Cristo di San Bernardino. Così, più che ad un sorriso, pare proprio assomigli ad una paresi. E forse in questo Clet ha saputo interpretare il vero stato d’animo della città. Speriamo solo che non sia permanente.

Ah, s’io fosse fuoco

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