La bistecca cotta al sangue è sacra, ovvero… sagra. Ecco in giocosa sintesi ciò che i linguisti chiamerebbero uno slittamento semantico e che, nel caso specifico, ha portato a chiamare sagra non più, come accadeva verso la metà del Trecento, la festa anniversaria della consacrazione delle chiese (sacra), ma appuntamenti gastronomici, fiere e mercati di natura varia. Si presume comunque (e già in questi termini ne parlava il Boccaccio) che fin da quando sacra era la sagra, venissero ugualmente mescolati i profumi dell’incenso a quelli dell’arrosto, i suoni d’organo a canzoni e balli, l’acquisto della salvezza eterna ad altri mondani baratti.
Dunque la sagra fu, e continua ad essere. Resistono – addirittura prolificano – questi convegni popolari anche nell’epoca del web e del globale. Così che la banda larga sa farsi stretta e chiassosa in ben diverse bande di pifferi e tamburi. L’universo mondo tornare ad essere paese, ed il paese quinta di teatro rizzata alla bisogna.
Fenomeno anch’esso post-moderno? Stai a vedere che la madre di tutte le sagre odierne non sia proprio la fiera postmodernista con i suoi banchi di filosofia spicciola, sincretismo a buon mercato, bricolage di idee e sentimenti. Tra business, turismo, nostalgie, folclore di origine più o meno controllata, abbuffate e rigurgiti a chilometro zero, tale è il modo con cui la società urbana ricerca qualche nesso con la tradizione rurale, con un universo – sia detto – in cui non prevaleva certamente la dimensione ludica e festaiola. Ricordarlo oggi, fosse anche con una semplice zuppa, mette invece allegria: effervescenti e bisunti gli organizzatori attorno ai bracieri, soddisfatto il pubblico che vi partecipa a frotte. Contenti tutti, insomma, nel rivangare un tempo al netto della miseria e della disperazione che lo abitavano.
Capitò una volta a chi qui scrive, di trovarsi a notte fonda in una piazza di paese dove da qualche ora si era conclusa la sagra annuale. Sedie scomposte, tripudio di plastica e vento, rumori come residui passi di mazurke, un cielo basso che faticava a smaltire vapori di salsicce e umanità. Dismesso il revival, abbandonati i suoi travestimenti, partiti gli attori. Mai simile squallore, però, mi era parso tanto gravido di poesia. Esagerai a tal punto da farmi tornare in mente il Leopardi della Sera del dì di festa: “Questo dì fu solenne: or da’ trastulli / prendi riposo; e forse ti rimembra / in sogno a quanti oggi piacesti, e quanti / piacquero a te…”. Ebbene sì. Finita la sagra, persisteva d’essa un rimpianto, una sua imprevedibile poesia.

Articolo precedente“Le voyage des Aquareves” trasforma Poggibonsi in un mare di acrobati e circensi
Articolo successivoIl Premio “Luigi e Francesca Brusarosco” ad una ricercatrice dell’Università di Siena