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GENOVA – All’alba, un’operazione coordinata ha coinvolto dodici carceri distribuite in sette regioni italiane, tra cui la Toscana, con una perquisizione anche nel penitenziario di San Gimignano.

L’intervento, condotto dalla Direzione Investigativa Antimafia di Genova sotto la guida della Direzione Distrettuale Antimafia ligure, ha smantellato una rete sofisticata che consentiva ai detenuti di alta sicurezza di comunicare con l’esterno attraverso telefoni cellulari clandestini e schede sim.

L’indagine ha rivelato un sistema ben organizzato che spaziava dal Piemonte alla Campania, passando per Liguria, Emilia-Romagna, Abruzzo e Calabria. In totale sono 31 gli indagati, con decine di perquisizioni e oltre 150 telefoni mobili e 115 schede sim monitorati principalmente nel carcere di Genova-Marassi, nodo centrale della rete criminale.

Gli investigatori hanno ricostruito un meccanismo che si avvaleva della complicità di negozi di telefonia del centro storico di Genova, dove le schede sim venivano intestate a persone inesistenti o a cittadini stranieri inconsapevoli. Questo escamotage garantiva l’anonimato e permetteva ai detenuti di mantenere contatti con affiliati sia liberi che ristretti in altri istituti, dando seguito alle “ambasciate”: messaggi che regolano ordini, strategie e ruoli all’interno delle cosche della ’ndrangheta.

Le perquisizioni hanno interessato anche altri istituti penitenziari: Fossano, Cuneo, Ivrea, Alessandria, Tolmezzo, Chiavari, La Spezia, Parma, Lanciano, Rossano e Santa Maria Capua Vetere, testimonianza dell’ampiezza e della trasversalità del fenomeno.

I telefoni, spesso di piccole dimensioni per eludere i controlli, entravano in carcere tramite pacchi spediti dall’esterno o durante i colloqui con familiari, alcuni dei quali sono ora sotto indagine per il loro coinvolgimento.

La polizia penitenziaria di Genova-Marassi ha avuto un ruolo chiave sequestrando numerosi dispositivi e fornendo dati fondamentali per analizzare il traffico telefonico e telematico, incrociato con intercettazioni e movimenti interni alle carceri, a conferma del coordinamento delle attività criminali.

L’inchiesta, diretta dal procuratore aggiunto Federico Manotti, punta a definire le responsabilità individuali, sia tra i detenuti sia tra coloro che hanno facilitato l’introduzione e l’uso dei telefoni. Non si tratta solo di una violazione del regolamento carcerario ma di un vero e proprio canale di comando e controllo mafioso. Spezzarlo significa compromettere la continuità operativa delle organizzazioni criminali che agiscono dall’interno delle carceri.

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