Arriva sempre un momento in cui il potere, incarognito nella propria arroganza e stupidità, teme notizie, idee, persino la satira. Ed allora mette in atto forme di censura (le modalità possono essere brutalmente dirette, ma anche trasversali). In proposito la storia non è solo maestra di vita, ma anche di morte, nel ricordarci, cioè, come gli accanimenti censorii preludino (potrà magari variare il timing) la fine di chi ne è il fautore. Solitamente è la fase che il grande Ennio Flaiano definiva “grave ma non seria”. Ovvero quando il potere, di fatto, deve censurare se medesimo, poiché non vuole che si sappiano le porcate e malefatte da esso compiute. E’ lo stadio dell’obnubilamento, del grottesco, della scompostezza, dell’acchiappa-sberleffi. Diversa, invece, è la censura sulla circolazione delle idee. Salvo rare eccezioni, chi esercita malamente la potestà, di idee ne ha poche e balorde. Perciò teme quanti siano in grado di elaborare davvero pensieri e opinioni. Non c’è infatti cosa più minacciosa di quella che, per propri limiti, non si riesce a capire. Meglio, allora, fermare tutto alla fonte. Non può essere corso l’azzardo di censurare solo il poco che risulta comprensibile, a rischio, poi, che un qualsiasi Karl Kraus possa ironizzare su come “il potere censura solo le battute che capisce”.
Aleksandr Solzenicyn, che della repressione esercitata dal regime comunista subì tutta la crudeltà, in una lettera del 1967 indirizzata all’Unione degli scrittori sovietici ribadiva proprio il ruolo di coloro che attraverso la scrittura debbono “preavvertire a tempo debito dei pericoli morali e sociali incombenti”. Diversamente – diceva l’autore di Arcipelago Gulag – la letteratura sarebbe ridotta a pura “cosmesi”.
Sono cambiati i tempi, le circostanze, le modalità di circolazione delle idee e delle notizie, ma non il goffo tentativo, da parte delle egemonie, di inibire informazione, cultura, critica, ogni qualvolta queste rivelino verità, smascherino trame, diventino luogo (auspicabile e necessario per la salvaguardia della democrazia) di antagonismo e resistenza al potere. Continua, insomma, dopo oltre mezzo secolo, a riproporsi l’allegoria di Fahrenheit 451 circa la gestione delle conoscenze e il controllo della società. In quel romanzo di Ray Bradbury (reso poi celebre dal film di Truffaut) ambientato nell’ipotetico futuro degli anni Sessanta, leggere era reato e guardare la televisione governativa un sufficiente esercizio di apprendimento e di goduria. Fantascienza sociologica? Fantapolitica? Dite un po’ voi.

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