Dal paradiso al limbo. Percorso davvero inconsueto quello della classe operaia che, per citare il celebre film di Elio Petri, dalla beatitudine (non certo delle condizioni di lavoro, ma di una coscienza di classe) si è ritrovata in una assoluta vaghezza identitaria. Continuano, infatti, ad esistere gli operai, ma non una classe operaia che fin dai luoghi e dall’organizzazione del lavoro è ormai priva di ‘fisicità’, di un ’inveramento’ (e quindi di una forza) un tempo rappresentati dalle migliaia di persone gomito a gomito sotto i capannoni delle fabbriche. Si è destrutturato (parcellizzato) un sistema produttivo ed un corpo sociale. Così che, nel nuovo secolo del post, chi ancora lavora in fabbrica è un solitario e demodé post-operaio.
Esiste una archeologia industriale fatta non soltanto di edifici abbandonati, ma pure di un dismesso immaginario politico, emozionale, letterario. Per ricordarlo basterebbe andare a rileggere certa narrativa del Novecento, magari partendo a ritroso dal romanzo di Oddone Camerana Il centenario (ovvero i cento anni della Fiat, 1899-1999), una vicenda – annunciava la fascetta del libro – “ambientata tra le macerie del capitalismo”, con il suo giovane protagonista che giunge nella città di Ligonto, vive per qualche giorno all’interno di quella che era la fabbrica più importante dell’intera regione. Là dentro incontra degli anacronistici militanti-funzionari (i Pattumeros) che continuano a comportarsi come se niente fosse cambiato. Una tragicomica che può essere presa ad allegoria della fine del secolo industriale. Quel Novecento che vide la grande trasformazione del nostro Paese, così come ce la raccontarono Paolo Volponi (Memoriale), Lucio Mastronardi nella trilogia di ambientazione vigentina, Giovanni Arpino in Una nuvola d’ira. Storie di boom economico, di esistenze sospese tra alienazione e realtà spesso crudeli e grottesche.
Poi, verso la fine degli anni Settanta, sarà Primo Levi, con La chiave a stella, a riprendere il filone della ‘letteratura industriale’. Lo farà dal punto di vista di un operaio specializzato che lavora in proprio. Un personaggio quasi epico, sempre in giro per il mondo a montare tralicci; sospeso tra terra e cielo ad assicurare bulloni, ma soprattutto un’idea morale e positiva del lavoro.
Per venire ai giorni nostri (i giorni del lavoro ‘flessibile’ e ‘interinale’) forse non c’è ancora una letteratura che sappia interpretarne appieno le contraddizioni. Ci si limita a descriverle, anche efficacemente, come ha fatto Andrea Bajani in Cordiali saluti, che narra di un tizio il cui mestiere consiste nello scrivere lettere di licenziamento guardando i colleghi ‘in esubero’ che ripongono gli oggetti personali dentro piccole scatole e si avviano lentamente verso casa. Un killer che uccide con parole ben costruite facendo un uso estetico e mistificatorio della scrittura messa a servizio del profitto. E la metafora non necessita di spiegazioni, ma di risposte.

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