AREZZO – «Dentro la tuta ci sono io». il messaggio che una signora di 52 anni si è scritta su un biglietto da attacare alla tuta di protezione per farsi riconoscere dal marito, anche lui 52enne, positivo al Covid e ricoverato nella degenza Covid di Pneumologia ad Arezzo.

«Non lo vedevo da 15 giorni. Gli infermieri mi avevano vestita con tutte le protezioni possibili. Mi sono avvicinata al letto: non mi ha riconosciuta. Gli ho parlato: non ha riconosciuto nemmeno la mia voce» racconta Patrizia, anche lei contagiata ma in forma lieve ed era rimasta in isolamento a casa. Lui, Sergio, non era stato altrettanto fortunato e il 15 febbraio era entrato in ospedale. Ne è uscito ieri ed è adesso nelle cure intermedie di Agazzi. Non sono due anziani: entrambi hanno 52 anni. Patrizia è una maestra di religione in una scuola dell’infanzia, Sergio è un istruttore di scuola guida.

«Quando l’ho visto sul letto, ho avuto la conferma di quanto fragili e deboli si sia durante la malattia. Soprattutto se si tagliano tutti i fili con la famiglia e gli amici. Se poi il contatto, quello visivo, avviene attraverso camici, visiera, doppia mascherina si rischia addirittura di non riconoscersi anche dopo 30 anni di matrimonio». Superato l’impatto, Patrizia ha avuto un’idea. E’ tornata a casa, ha preso una sua foto e si è creata da sola una specie di grande tesserino di riconoscimento. L’ha sistemato sul camice con una didascalia ben visibile: «dentro la tuta ci sono io». Ed è tornata al letto del marito.

La carezza alla foto

«La prima cosa che ha fatto è stata quella di accarezzare la foto. Era ancora un po’ incerto su chi ci fosse dietro la maschera e dentro la tuta ma nessun dubbio su chi fosse la donna della foto: era sua moglie, ero io. Quando mi ha riconosciuta, siamo scoppiati a piangere: è stato veramente un ritrovarsi dopo un viaggio terribile che avevamo fatto in solitudine, uno lontano dall’altra». Parlando poi con lui, ha scoperto il suo angolo di visuale, quello dei pazienti nelle degenze Covid. «Medici e infermieri sono angeli, non credo ci possano essere aggettivi per definire il loro lavoro. Ma agli occhi di chi è disteso su un letto, con il viso coperto dalla maschera del respiratore sono come tanti soldatini anonimi. Non sono riconoscibili da loro: non hanno né nome né viso. Forse anche gli operatori potrebbero avere grandi foto sulle tute di protezione. Non a caso penso abbiano condiviso con entusiasmo la mia idea di presentarmi con la foto al letto di mio marito proprio per agevolare il contatto con lui».

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