E se avesse ragione il ragionier Mancini? Se proviamo a guardare le vicende senesi degli ultimi anni da un altro angolo visuale possiamo scorgere dettagli che altrimenti passano inosservati.

Ieri è uscito definitivamente di scena dal mondo della politica e della finanza Gabriello Mancini, una vita nella Democrazia Cristiana, corrente dorotea, poi segretario provinciale del Partito Popolare, infine uomo di punta della finanza margheritina quando nel 2001 viene messo un gradino sotto all’astro nascente dei Ds, Giuseppe Mussari, salito improvvisamente nella poltrona più alta di Palazzo Sansedoni per uno di quei tradimenti tipici della politica. Stava trattando la poltrona per il “suo” assistito Pierluigi Piccini e poi su quella cadrega c’era finito lui.

A controllarne le mosse (perché un tempo il sistema dei pesi e contrappesi politici era questo) fu chiamato il ragionier Gabriello Mancini da San Gimignano, uomo di fiducia di Alberto Monaci. Ma tra Mussari e Mancini non scattò mai quel rapporto controllore-controllato in senso bidirezionale, anzi. Fu sempre Mussari a fare il bello e il cattivo tempo. E Mancini relegato a presiedere ad inaugurazioni in giro per la provincia (a Siena, laddove contava, andava l’Avvocato). Fu così che tra una inaugurazione di un locale della Misericordia e un’ambulanza della Pubblica Assistenza, tra una mostra di pittura, un convegno e il restauro del tetto di una chiesa di campagna, Mancini si guadagnò il soprannome di “Taglianastri”. Come spesso accade i soprannomi sanno evocare con immediatezza più di mille parole i contenuti di certe personalità.
 
Nessun controllo su Mussari, dunque, ma più una funzione di addetto alle inaugurazioni ed a ricevere i ringraziamenti del finanziato di turno. Insomma, un ruolo da cerimoniale, mi si passi l’espressione.
 
Poi nel 2006 avviene il fatto nuovo e imprevisto, ai più. L’uscita da Rocca Salimbeni del professor Pierluigi Fabrizi apre la strada in banca a Giuseppe Mussari e cosa di meglio che far salire un gradino a Mancini in Fondazione? Ormai i due si intendevano a meraviglia. Si capì subito che la locomotiva ora avrebbe trainato da piazza Salimbeni. E Mancini, nella sua prima uscita pubblica, disse che avrebbe considerato Mussari sempre il “suo” presidente. Qualcosa di più di un normale avvicendamento. Furono gli anni fatali delle scelte che, per sua stessa ammissione, passarono sopra la sua testa nonostante fosse l’azionista di maggioranza della Banca. Anche recentemente si è saputo che l’acquisto di Antonveneta Mussari lo comunicò prima al sindaco Maurizio Cenni e al presidente della provincia Fabio Ceccherini e poi a lui che ne venne informato solo “dopo i fuochi”.
 
Infine, si arrivò al 2009. E dall’autunno precedente in molti posero la questione del suo terzo mandato in Fondazione. Si sapeva, infatti, che lo Statuto parlava di due mandati e la riconferma sembrava impossibile. Passarono molte settimane e arrivò un parere, redatto dallo studio legale dell’avvocato Torchia (in buoni rapporti con Mussari) che a dispetto di tutte le previsioni ne affermava la piena legittimità. Quel parere andò bene a tutti. Ma proprio a tutti. E fu così che Mancini è potuto rimanere un altro mandato. Quello fatale per il suo futuro e per quello della città.

Di lui rimarranno celebri alcune uscite come quando a chi continuava a chiedere risorse rispose pubblicamente «La Fondazione non è un bancomat!». Lì per lì in molti sorrisero, senza capire che c’era veramente qualcuno che stava facendo prelievi su prelievi da Palazzo Sansedoni senza neppure digitare il PIN. Poi, il gran silenzio di fronte a Alessandro Sciortino che alle Logge del Papa gli poneva domande su domande in merito alla inchiesta Mps. Rimase in silenzio, impassibile, come solo i democristiani sanno fare, mentre dietro di lui, i volontari della Misericordia sfilavano incappucciati per le vie della città.

Ieri, davanti alla stampa, (lasciato solo dalla "sua" Deputazione Amministratrice che forse ha pari responsabilità del disastro), ha regalato una nuova frase che rimarrà nei taccuini dei giornalisti: «Non siamo burattini, ma gente di mondo». Una affermazione roboante per un uomo tutto casa e chiesa. Uno che è uscito senz’altro con le mani pulite così come vi era entrato. Per un uomo che da trent’anni non tradisce la “sua” Chianciano ogni fine agosto per passarvi le acque. Per un uomo che tutte le domeniche va a messa nella Collegiata di San Gimignano come un bravo cattolico praticante. Per un uomo che non ha vizi se non, forse, quello di credere nella correttezza e lealtà degli altri. «Siamo gente di mondo», ha detto ieri, forse per darsi un tono. Personalmente dubito sia vero e mi viene invece in mente la celebre affermazione di San Paolo (di cui senz'altro Mancini è devoto): «Omnia munda mundis».

«Tutto è puro per i puri – scrive il Santo a Tito -. Ma per i contaminati e gli infedeli nulla è puro, sono contaminate la loro mente e la loro coscienza». Forse qualcuno "contaminato e infedele" in questi anni aveva bisogno del "puro" ragionier Mancini per fare quello che è stato fatto a Siena?

Ah, s’io fosse fuoco

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