Renato Magi aveva 19 anni nel 1944, nato a Radicofani, scelse di morire sotto i colpi del fucile nemico e di vivere per sempre in quel limbo, tra leggenda e storia, in cui sopravvive per sempre chi sceglie di morire per un ideale. Lui, partigiano, decise di non abbandonare il suo comandante neanche di fronte alla cruda morte. Entrambi, autoaccusandosi dei sabotaggi compiuti ai danni delle truppe tedesche negli anfratti della più cruda Val d’Orcia e lungo la Cassia, salvarono così la vita ad altri civili catturati nel corso di un rastrellamento. Era il 17 giugno di 70 anni fa, pochi minuti prima di essere bendato ad attendere il colpo secco di un fucile, Renato scrisse una lettera alla madre: “Cara mamma,oggi 17 alle ore 7 fucilati innocenti. La mia salma si trova di qua dalla scuola cantoniera dove sta Albegno, di qua dal ponte. Potete venire subito a prendermi dall’orto. Mi sono tanto raccomandato, ma è stato impossibile intenerire questi cuori. Mammina, pregate per me, dite ai miei fratelli che siano buoni, che io sono innocente. Mentre scrivo ho il cuore secco, mamma e babbino cari venite subito a prendermi. Dite alla mia cara Maria che sia buona, che io le ho voluto tanto bene, che si ricordi di me. Abbiamo dieci minuti di tempo ancora. Baci a tutti per sempre. Sono il primo. L’anello datelo a Maria che lo tenga per ricordo”.

Il comandante e fondatore del gruppo partigiano che aderì al “Gruppo Simar” era il Carabiniere, passato alla clandestinità, Vittorio Tassi che scelse di tornare nella natale Radicofani per combattere i soprusi e l’occupazione tedesca. Vittorio aveva 41 anni e anch’egli, poco prima di udire l’ultimo colpo di fucile, scelse di scrivere una lettera, indirizzata alla moglie. Le due lettere arrivarono a destinazione perchè consegnate al cappellano militare tedesco. “Cara Olga – scrisse Vittorio -. Oggi 17 alle ore 7 fucilato innocente… Cara Olga ti raccomando i nostri figli. Confortali e vogli loro bene quanto gliene volevo io… Io mi sono tanto raccomandato, ma è stato impossibile intenerire quei cuori… Cara mamma, vi raccomando di aiutare mia moglie e i miei figli quanto più potete. Perdonatemi tutto… Mia cara Olga, avrei tante cose da dirti, ma non posso più scrivere perché ho il cuore secco… Se Iddio vuole ci rivedremo in cielo e di lì non ci separeremo più. Caro Ercole, sii buono, e ubbidiente e ricorda spesso il tuo babbo; e anche tu, cara Anita, sii buona, Iddio vi aiuterà. Vi bacio tutti per l’ultima volta: Vostro Vittorio. Dirai a Remo che moriamo, io e Renato, con il nostro segreto“.

Due lettere simili in alcuni passaggi; entrambe crude, schiette, intime e pulite da parole ridondanti che avrebbero sporcato il messaggio di amore. Una storia, quella di Renato e Vittorio, che non tutti conoscono, così apparentemente lontana nel tempo ed eppur così vicina nello spazio. In quella Radicofani che divenne da quel giorno terra di partigiani e che fino ad allora era stata solo di briganti nel nome di Ghino di Tacco. Renato e Vittorio, medaglie di bronzo e d’oro al valore militare, si sono sacrificati scegliendo la morte senza immaginare che sarebbero sopravvissuti nel limbo degli eroi.

Di loro, dieci anni dopo quel 17 giugno del 1944, si occupò Alberto Moravia in quello che potremmo banalmente definire “curioso paragone” con Dante. “I due di Radicofani – spiega Moravia in uno scritto tratto dal libro La Voce della Resistenza -, in quell’estremo istante della loro vita, trovano accenti che non è esagerato chiamare danteschi. L’ansietà per il destino del proprio corpo, sacro vaso dell’anima, il senso della morte come di qualche cosa che non possa in realtà interrompere la vita, la commovente topografia, queste sono cose dantesche.
Scrivono i due toscani:Cara mamma, oggi 17 alle ore 7, fucilati innocenti. La mia salma si trova di quà dalla scuola cantoniera, dove sta Albegno, di quà dal ponte. Potete venire subito a prendermi. (Renato Magi)Cara Olga, oggi 17, ore 7, fucilato innocente, la mia salma si trova di quà dal fiume, di quà dalla scuola cantoniera, dove sta Albegno. (Vittorio Tassi) Scrive Dante:L’ossa del mio corpo sarieno ancora in co’ del ponte, presso Benevento…(Purg. III 127)”.

Cristian Lamorte

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