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Torre del Lago – Lo sente. In palcoscenico, in queste sere di prove. Avverte la presenza di Giacomo Puccini “che piange e ride con noi”.  Cio cio san tessuta di amore e ingenuità, il duetto dei ciliegi, il ruffiano Goro, l’ingannevole Pinkerton, le parole cantate sotto il “gran ponte del cielo”.

La luna a fare da testimone. Madama Butterfly rivive il suo dramma, eterno, da donna che con un battito d’ali proietta la lirica nel Novecento e oltre, in una dimensione senza tempo.

La voce è quella di Maria Agresta, soprano che il mondo invidia all’Italia. Sul palco è concentrata, ispirata in vista della recita di venerdì 8 agosto (ore 21,30) al Festival Puccini di Torre del Lago, edizione n° 71.  Con lo sguardo rivolto verso la villa del Maestro, Maria Agresta è la professionista che nel 2014 vince il premio Franco Abbiati della critica musicale italiana per la “voce purissima di soprano lirico, dal timbro privilegiato e dai colori preziosi, dalla tecnica completi”. Ma è anche la bambina silenziosa, in Campania, che per ore giocava coi colori o la pasta dei biscotti, l’orecchio teso ai dischi della Callas, la voce udibile solo per canticchiare le canzoni che ascoltava la mamma. Oggi la sua voce, invece, la ascoltano ovunque. Poterla ascoltare a Torre del Lago è un privilegio. Da questo teatro manca dal 2013, quando offrì una Mimì memorabile, ruolo interpretato nei tanti allestimenti de La Bohéme di cui è stata protagonista  nei principali teatri del mondo. Nei prossimi mesi anche a Roma, di nuovo, dopo che avrà inaugurato la nuova stagione al teatro Real di Madrid, a ottobre, con l’Otello di Verdi.

Maria Agresta, lei torna a Torre del Lago con Madama Butterfly. Quando per la prima volta interpreta questa opera?

“Per la prima volta nel 2022 a Bilbao (Spagna). É stato un debutto sia in quel teatro che nel ruolo di Cio cio san (Butterfly). Ma è un ruolo che studiavo da anni con una grandissima Butterfly, se non la Butterfly per antonomasia: la signora Raina Kabaivanska. Con lei ho studiato il ruolo quando prendevo lezioni in modo assiduo una decina di anni fa perché già allora ero convinta e, studiandolo me ne sono convinta ancora di più, che Cio cio san sia un ruolo che vada maturato sia da un punto di vista tecnico,  sia a livello emotivo. Soprattutto a livello emotivo, direi. É un ruolo che deve essere “digerito”, portato nel nostro essere con molta calma e parsimonia, perfino”.

Perché, scusi?

Perché è un ruolo che ti travolge e non è possibile all’inizio di carriera, ma neppure in maturità, trattare in maniera distaccata. É un po’ come quando ci facciamo un tatuaggio: si passa dal puntino ad avere il disegno completo ma ci vuole il suo tempo. É un ruolo meraviglioso, complicatissimo, ma  fa proprio male, a livello emotivo”.

Che cosa significa che  Cio cio san è un ruolo che fa male a livello emotivo?

É un ruolo che ti arriva da tutte le parti:  dalle orecchie, dagli occhi, dal cuore e ti sedimenta all’interno, mentre lo stai cantando, tanto che io il giorno dopo di una recita di Butterfly non riesco mai a tornare serena. C’è un disagio, una sofferenza sottile che ti resta dentro: ma credo che sia una conseguenza voluta da Puccini. O sperata, anche perché questo è un ruolo che sa di verità, che sa di dolore reale; è un ruolo che parla di bellezza ma anche di tanto dolore allo stesso momento. Calarti in questo ruolo è veramente qualche cosa che ti investe come uno tsunami. L’espressione precisa è proprio “ti investe”.

Per me è stato molto difficile riuscire a creare una sorta di distanza emotiva dal ruolo. Non ci sono riuscita, in verità, e tutte le sere è sempre una lotta contro le mie emozioni, perché chiaramente le emozioni, quelle forti ti portano a chiuderti, a chiudere  anche la gola, invece per cantare la gola  deve essere libera.

Quindi Butterfy è un ruolo che dal punto di vista emotivo ti mette a dura prova. Così ho deciso di cominciare  presto presto a studiarlo, proprio per cercare di arrivare a un compromesso: non so se ci sono arrivata, ma so che tutte le sere do sempre tutto quello che posso, forse anche riesco a trovare una forza che non pensavo di avere dentro di me per portare in scena questa donna immensa”.

Lei come si immagina questa ragazzina di 15 anni che si  innamora di un americano che la sposa per finta e che per amore o per cultura rinuncia perfino al figlio?

“Guardi io ho lottato moltissimo, anche con colleghi, parlando del ruolo di Cio cio san. Per me in questa opera, nel libretto, non c’è niente di nascosto. Puccini disegna in modo molto chiaro Butterfly e si vede  quale fosse il pensiero del compositore nei confronti del personaggio. Io ho studiato a lungo l’opera, ho letto tante cose, però, c’è qualcosa che al di là di tutto ci parla di quella che è Cio ciò san ed è la musica che Puccini le affida. Ci sono passaggi delicatissimi, ci sono passaggi talmente eterei, inconsistenti quasi e ci sono passaggi invece fortemente drammatici.

Nella mia conoscenza del personaggio sempre sono partita dal presupposto che Butterly è una ragazzina di 15 anni,  con una cultura  di origini  “umili e silenziose”  come le definisce lo stesso Puccini. Quindi immagino questa ragazzina, poco più di una bambina, di una semplicità, di una rara delicatezza e di una incoscienza che non ha a che vedere con un’accezione negativa, ma con l’incoscienza pura. Penso, quindi, a questa ragazzina che arriva all’incontro con Pinkerton, (l’ufficiale americano che la “compra” come sposa) con tutte le aspettative che un’adolescente può avere quando le dicono “Vieni perché ti presentiamo un uomo, un ragazzo”. Lei ha le aspettative di una ragazzina che vuole cambiare il suo stato, che ha voglia anche di emanciparsi,  di  riscatto sociale, ma soprattutto ha voglia di innamorarsi. Quindi arriva all’appuntamento con Pinkerton con le migliori aspettative. E lo vede bello”.

Sarà stato davvero bello?

“Probabilmente sarà stato anche bello. Ma l’importante nella narrazione è che lei lo vede bello. Bello davvero. Tant’è che canta “bello che non si può sognar di più”. E poi durante il duetto gli rivolge queste frasi ingenue e innamorate: “Siete alto e forte”, ma soprattutto “Dite cose che mai non intesi”: sono tutti elementi, come si vede, che la colpiscono nel profondo e che segnano questa crescita di amore che lei porta dentro di sé. Poi, la cosa bellissima è quando Butterfly  parla a Pinkerton subito di se stessa e gli dice “a me basta poco, un bene piccolino, un bene da bambina”. Questa non è ricerca di cose grandi, è ricerca di un bene fatto di delicatezza, di purezza. E ci  fa capire perfettamente lei chi è.

Anche questo incontro fatto di gesti delicati, di donarsi ma poi di ritrarsi per il suo eccessivo pudore ci rivela l’animo di Butterfly. Nel primo atto, dopo le nozze fasulle, si arriva al duetto, si arriva all’amplesso, dopo quanti minuti di parole? Se Cio ciò san fosse stata una donna che cercava semplicemente di maritarsi, l’avrebbe chiusa lì, in fretta. Invece Cio cio san trascina, trascina  la sua presentazione, prolunga questo suo rivolgere a lui le sue parole meravigliose. Ed è titubante fino all’ultimo, non perché non lo vuole, ma perché mantiene un senso di pudore fanciullesco.  Anche la musica sottolinea l’incontro di questi due mondi. Musica e testo ci mostrano che Pinkerton cerca, in maniera sbrigativa, di arrivare al dunque, lei invece  lo rimanda con frasi e melodia straordinariamente bella”.

Così sarà la sua Butterfly?

Questa lentezza, indecisione ha guidato un po’ anche la mia idea e la mia interpretazione. Purtroppo tutto cambia nel secondo atto, quando si vede Cio cio san che a fatica affronta la miseria, quando affronta l’arrivo del console americano, Sharpless, che le porta notizie brutte. Ho sempre pensato che la lettera che annuncia il ritorno di Pinkerton, non l’abbia scritta Pinkerton in persona, ma che l’abbia scritta il console americano per consolare Butterfly. Io credo che Pinkerton, sbrigativo come sempre, abbia detto a Sharpless, “Vai a dirle che torno” e basta.  Il console, invece, a mio avviso, ha adornato il messaggio per renderlo  un po’ più umano. É stato il console, a scrivere la lettera, secondo me. E Butterfly spiazza anche il console con la sua purezza, con questa sua speranza incrollabile, con questo suo amore sconfinato per Pinkerton, quando mostra la gioia per il ritorno, dopo tanta attesa. Infatti, chi aspetterebbe  un uomo per tre anni, senza mai avere uno scritto, una parola, un cenno? Solo chi ha una grande forza, supportata anche da un sentimento puro, enorme. Coronato dalla nascita del loro bambino, l’unica cosa bella che l’incontro con Pinkerton le aveva lasciato. E che alla fine le viene sottratto”.

Cosa rappresenta, per lei, il gesto della sottrazione del figlio, sintetizzata nella frase lapidaria di Cio cio san: “Volete prendermi tutto”?

“Il gesto di dover lasciare un figlio non è un gesto che una mamma può affrontare. É qualcosa di sovrumano, innaturale, di assurdo, atroce. Eppure anche in quel momento lì, Cio cio san dice: ho capito; sono sua moglie, devo obbedirgli”.

In quel momento, però, vediamo Madama Butterfly tornare giapponese, dopo gli sforzi per diventare americana come il suo sposo.

“Lì, in quel momento, torna profondamente giapponese. Anzi non è mai stata occidentale. Ha cercato, ma non lo è mai stata.  Una donna che anche volesse solo emulare una donna occidentale, avrebbe preso il figlio e sarebbe andata a cercarlo, in America.  Invece, lei  aspetta Pinkerton lì, in Giappone, con la speranza che questo amore le venga restituito. E gli dà tutta se stessa, fino alla fine. Fino all’ultimo respiro”.

Partendo da queste considerazioni, ritiene il suicidio finale di Butterfly un gesto d’onore e quindi giapponese o lo vede più come un gesto universale? Il suicidio di una donna, di una madre che deve rinunciare al figlio?

“Per me è il suicidio di donna alla quale è stato tolto tutto, anche la cosa più importante in assoluto, il figlio, appunto. Io lì, in quel gesto, ci vedo il sentire occidentale. Contrariamente a quello che sembrerebbe un rito giapponese (jigai, il suicidio femminile  per perdita dell’onore) in quell’atti finale di Butterfly vedo, invece un testo che farebbe qualunque donna privata del figlio. Probabilmente nessuna donna  sopporterebbe un dolore così grande: quello è il gesto estremo di una donna che capisce che non le è rimasto più niente. Non parliamo di una donna che capisce di essere stata presa in giro, ma che non ha più nulla. Non credo che Butterfly perda l’amore per Pinkerton, malgrado lui si ripresenti con la moglie vera, americana: io penso, invece, che lei comprenda di aver perso ogni cosa  di valore. E che senza amore, senza figlio non abbia senso la propria esistenza”.

A pochi anni dall’inizio della carriera da professionista, lei vince il premio Abbiati, assegnato dall’associazione nazionale dei critici musicali, per la sua voce straordinaria. Fra i ruoli citati per motivare questo riconoscimento ci sono Elvira dei Puritani e Liù da Turandot. Anche Liù è un altro personaggio di Puccini straordinario e complesso. 

Liù, secondo me, è un altro personaggio pucciniano di una forza incredibile. Tra l’altro Puccini lo amava moltissimo, lo sappiamo: aveva avuto per un periodo anche il dubbio di chiamare l’opera “Liù”, perché le pagine più belle sono affidate alla schiava di Turandot. Liù, ruolo che amo moltissimo, è molto affine a Butterfly. Penso che le donne pucciniane abbiano un filo conduttore che è il senso del sacrificio, la capacità di  sacrificarsi per il bene di qualcun altro. In fondo Butterfly si sacrifica per il bene del figlio perché pensa che il bambino, con il padre, possa avere un futuro migliore e tutto ciò che lei stessa  non ha mai avuto. Inoltre, per amore di Pinkerton, rimane a casa, si sacrifica, rifiuta i pretendenti, se ne frega della ricchezza, del lusso.

Liù è uguale: sacrifica se stessa (si suicida) e il proprio amore per donare, a sua volta, l’amore alla persona di cui è profondamente innamorata (il principe Calaf). Se tutti noi imparassimo da questa capacità di amare, credo proprio che il mondo sarebbe un posto migliore”.

Quale è la differenza fra cantare nei grandi teatri di New York, Londra, Madrid e cantare a Torre del Lago, in una struttura con qualche difetto di acustica, ma che si trova dove Puccini ha composto le sue opere?

“Io sono una che chiede molto a se stessa, sono una persona iper critica verso se stessa e sono anche un’interprete che sente molto l’obbligo di dare il meglio di sé per valorizzare a questi capolavori. Da italiana che canta queste opere in tutto il mondo mi sento ancora di più investita di questa responsabilità. Cantare le opere di Puccini qui dove lui è presente – perché lui è presente – è una sensazione bellissima. Almeno per me è meraviglioso, ma è anche triplicato il senso di responsabilità che provo.

Io sono convinta che Puccini sia sempre vicino agli artisti che si cimentano nei ruoli delle sue opere. Sono convinta  che li assista, che li guidi, a maggior ragione qui a Torre del Lago. Queste sere in cui abbiamo provato, salendo in palcoscenico, ho sempre guardato verso la villa dove Puccini ha vissuto e ha voluto essere sepolto: è stato un gesto istintivo. Anche se sono convinta che lui  sia stato in palcoscenico in mezzo a noi e si sia divertito tantissimo, abbia  riso e pianto con noi. Esibirmi qui, per me, è un’esperienza che posso descrivere solo con superlativi”.

Dopo questa Butterfly di Torre del Lago che cosa la aspetta?

“Subito a fine agosto inizio le prove per l’Otello di Verdi, per l’inaugurazione della stagione (a ottobre) a Madrid: sarò diretta da Nicola Luisotti, maestro versiliese che ricopre il ruolo di “director asociado” del teatro Real. Poi ho una serie di concerti e a fine ottobre inizierò le prove per l’Adriana Lecouvreur di Cilea  in cartellone a Bilbao. E ho altri appuntamenti interessanti: canterò a Napoli, al San Carlo, un’opera, “Partenope”, una prima esecuzione in tempi moderni di Ennio Morricone, un lavoro che non ha niente a che vedere con quello che conosciamo del maestro. Verrà eseguita, questa opera, per i 2500 anni della città. Quindi avrò altri concerti, poi La Bohème a Roma, il Falstaff e contemporaneamente ho anche la docenza all’Accademia del teatro San Carlo a Napoli. Sono già 25 anni che canto, se considero i primi da mezzosoprano. E sono 30 anni che ho iniziato a studiare canto. Un lungo percorso per  quella bambina di 12 anni, chiamata nel coro della propria parrocchia. Felice solo di poter cantare, ma senza alcun pensiero di carriera. Invece, poi è andata così”.