balducciIndubbiamente meritoria la ristampa de “Il terzo millennio. Saggio sulla situazione apocalittica” di Ernesto Balducci, edita da Mauro Pagliai in collaborazione con la Fondazione “Balducci”. Un libro che, a distanza di quasi 35 anni (uscì per Bompiani nel 1981) conferma la lucidità di analisi, lo spessore intellettuale di Balducci e il suo carisma profetico. Si tratta, infatti, di un libro che – salvo qualche aggiornamento sulla contingenza storica del nostro oggi – continua benissimo a spiegarci a quale svolta epocale ci si trovi in questo nostro debutto di millennio che, all’epoca in cui fu scritto il libro, non era ancora registrato sui calendari, ma già mostrava gli sfarinamenti di un passato e gli abissali interrogativi rispetto al futuro.

Del resto colui che possiede il carisma della profezia non è un indovino o il curatore di una rubrica di oroscopi, ma è colui che sa leggere, sa spalancare il presente in una prospettiva futura.

E questo fa Balducci attraverso una sorta di autobiografia culturale che, in modalità e livelli diversi, rappresenta la nostra vicenda culturale di singoli e di società. Balducci lo fa dalla statura intellettuale che gli era propria, incrociando ragione, cuore e fede.

La fine di un mondo Siamo, appunto, agli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso e insieme alla “paura atomica” di un’autodistruzione del mondo c’è quella, per certi aspetti ancora più inquietante, della scomparsa di un universo culturale, morale, religioso: l’Occidente. Ecco, allora, diffondersi la “sindrome apocalittica”, che nasce da un’equazione, nonché da un equivoco: pensare che la fine di un mondo sia la fine del mondo. Ciò avviene – dice Balducci – ogni volta che un ordine di civiltà entra in crisi; allorché per l’uomo si allentano le sicurezze che quell’ordine gli largisce nella sfera pubblica e privata, e lo pone dinanzi alla sua fragilità, dinanzi alla sua originaria esposizione al nulla. Nel condurre una ‘smaliziata’ analisi di questo patema apocalittico, l’autore nota, fra le diverse cose, come l’uomo euroatlantico fosse convinto di parlare dell’Uomo mentre, invece, parlava solo di se stesso; credeva di parlare in termini universali, mentre parlava del suo particulare. Ma, ormai, una storia univoca dell’umanità non è più possibile. Proprio ora che ci siamo resi conto di quanto piccolo e diversificato sia il nostro pianeta, non possiamo pronosticare, al momento, se la sua civiltà sarà nel futuro una civiltà unitaria e nemmeno se sarà una civiltà secolare. L’unico progetto degno di una coscienza moralmente matura è oggi quello del dialogo delle civiltà.

Quale Dio è morto Trasferendo il discorso sul piano religioso Balducci si chiedeva anche – all’interno di tale crisi di civiltà – quale Dio fosse morto. Per scoprire, magari, che il Dio che è morto era il protettore delle classi dominanti che quel Dio si erano allevato finché gli è stato utile, per poi farlo fuori adesso che non serve più. Dio, dunque, non è morto; ha solo perduto le sue forme antropomorfiche trasformandosi «in una Megamacchina anonima che occupava le nostre coscienze senza nemmeno aver bisogno di genuflessioni». Ma non solo, «anche i pronostici dell’ateismo umanistico dell’Ottocento non si sono avverati: Dio è morto, ma non per questo l’uomo è più libero». Non di meno – dice ancora l’autore – occorre tener presente un aspetto di ordine classistico. Perché non solo la nostra consapevolezza culturale soffre i limiti dell’ottica etnocentrica, ma soffre anche il limite dell’ottica di classe. Ovvero noi siamo ancora interni alla grande cultura borghese e cioè della classe che ha compiuto e portato avanti la più grande rivoluzione della storia. Una cultura talvolta illuminata alla quale anche certa arretratezza espressa dall’universo religioso le era comunque organica. La rivoluzione proletaria, almeno nei suoi statuti ideologici, non è che il suo corrispettivo dialettico e presuppone, come sua condizione necessaria, l’instaurarsi, appunto, del modello borghese di civiltà.

L’Uomo nuovo Fallisce, dunque, una cultura dominante che aveva preteso di definire l’Uomo e ci troviamo nella necessità di creare un uomo nuovo. Occorre, allora, dare alla speranza una consistenza politica; dotarsi di una nuova razionalità che consenta il discernimento di quanto nell’uomo è rimasto inibito o distorto durante l’egemonia della cultura che ci ha condotti al punto critico in cui ci troviamo. Tale discernimento non può darsi senza una messa sotto sospetto dei canoni di giudizio di cui ci siamo serviti fino ad oggi per tracciare una linea di separazione tra possibilità legittime e possibilità illegittime. Chi si ostinasse a vivere la continuità col passato rimuovendo da sé ogni percezione del mutamento, è colpito da una specie di idiozia morale, che è altra cosa dall’idiozia dell’intelletto. L’idiozia morale, avvertibile anche in certi intellettuali brillanti, è il ripiegamento dell’io sul proprio universo mentale, un ripiegamento che ha alla sua radice un sostanziale disprezzo per le sorti dell’uomo. Il fenomeno è vasto. La nostra cultura, anche di prestigio, ne è rimasta investita mortalmente.

Un’utopia? Temi quanto mai attuali ed utopici (?), verrebbe da dire a noi che viviamo un frangente storico tutto schiacciato sul presente, dinanzi a una globalizzazione che subiamo, non gestiamo; e dove certe contraddizioni e contrapposizioni vanno quanto mai acuendosi (forse proprio per la mancanza di una coscienza e di progetti che abbiano il respiro della planetarietà). Ecco, Balducci dinanzi al buio di certi passaggi epocali (passaggi intermedi, di crisi) invitava a non meravigliarsi. E a questo proposito citava uno dei suoi autori di riferimento, Ernst Bloch, il quale scriveva: «ai piedi del faro, non c’è luce».

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