SCALETTA

Ottimo concerto ieri sera di Francesco De Gregori al Obyhall di Firenze per una delle prime date del suo “Amore e furto”. Reduce dal successo all’arena di Verona lo scorso settembre per i quarant’anni di Rimmel, De Gregori ha pubblicato in autunno il disco dedicato al suo maestro venerato, Bob Dylan. E ora porta in giro le sue ballate tradotte. Un’idea che ha ottenuto un grande successo di pubblico e di critica. E che dal vivo rende particolarmente bene, grazie ad una band solida e ben selezionata dal semprepresente Guido Guglieminetti.

Non era certamente la prima volta che De Gregori si cimentava con l’opera di Dylan, ma è senz’altro l’omaggio più organico. Già negli anni ’70 insieme a Fabrizio De Andrè avevano tradotto Desolation row, finita nell’album “Canzoni” (1974) del cantautore genovese con il titolo di Via della povertà e “apparentemente” dimenticata dal Principe. Divertente oggi riascoltare le versioni, insieme all’originale. Ognuno canta a suo modo una disperata storia di ostinata ribellione. E la versione di De Gregori di tutte è la più rock. Ieri è stata la prima ad aprire la prima parte del set live, cui sono seguite le altre dall’album, compresa una intensa Non è buio ancora da Not dark yet.

De GregoriLa seconda parte del concerto, invece, è stata dedicata ai quaranta anni e passa di carriera di De Gregori che da tempo ha smesso i burberi panni del cantautore impegnato e accigliato per avvicinare anche un pubblico più pop e giovane. E l’Obyhall, infatti, ieri era composto da un mix generazionale che univa genitori e figli ormai adulti. Un miracolo che nel tempo è riuscito in Italia a pochi. Vasco su tutti.

Belle le versioni di A Pà, dedicata a Pier Paolo Pasolini nell’anno del 40° annoversario della morte, e di Santa Lucia, che nel finire accenna col violino a Com’è profondo il mar, tra gli applausi del pubblico pagante. Delicato omaggio all’amico Lucio Dalla, che dal 2013 ormai chiude una delle canzoni simbolo dello storico tour “Banana Repubblic”. Ha incantato, infine, Pezzi di vetro, cantata da solo con chitarra. E, a Firenze, non poteva mancare Caterina, con quell’omaggio alla Bueno e ai tetti della città che il pubblico ha riconosciuto e cantato in coro. Poi Pablo e una rinnovata e ballabile Sotto le stelle del messico. Nel bis una scarnificata La donna cannone (con struggente violino finale) e Rimmel. Che altro? Niente. La sensazione era di aver assistito ad una fase vitale nella lunga carriera di uno dei più grandi cantautori italiani. Uno dei pochi ancora in pista, perciò teniamocelo stretto e andiamo a sentirlo ogni volta che arriva in città.

Articolo precedenteParola di esperto. Fiorentina, Bongiorni: «Bernardeschi non si discute, Babacar deve svegliarsi»
Articolo successivoL’INTERVISTA. Commissione inchiesta Mps, Giannarelli: «Auspico nuove indagini». Sei mesi tra reticenze, rifiuti e intrecci pericolosi