Torre del Lago – Qualche sera fa, al termine della recita de La Bohéme, al festival Puccini, un amico di famiglia, gli si avvicina, lo abbraccia e gli dice, quasi più stupito che commosso: “Accidenti Carlo, ma è questa l’opera? Cosa mi sono perso in questi 60 anni?”.
Carlo Raffaelli ha ancora qualche traccia di trucco sul volto. Gli abiti di Rodolfo sono già su una cruccia. Ha dato l’addio a Mimì, nella sua “tana squallida” di Parigi, ma sarebbe pronto a cantare di nuovo l’opera da capo. Ascolta la domanda dell’amico di famiglia e pensa: “Sì è questa l’opera. E anche io ho rischiato di perdermela”. Il destino, l’ha acchiappato, per la coda. O forse è il contrario. Sfidando meridiani, paralleli, biografie e migrazioni familiari. Carlo (Eugenio) Raffaelli, infatti, nasce a Edimburgo da mamma scozzese e padre emigrato dalla Garfagnana, da Pieve Fosciana, in provincia di Lucca. Cresce parlando italiano dentro casa, “fino al cancello del giardino”, e ascoltando l’inglese oltre quel cancello. É un ragazzino inquieto, proiettato verso l’Italia – la Toscana, soprattutto: Garfagnana, Viareggio, Firenze – con molti progetti ma nessuno preciso. Fra questi non c’è quello di diventare tenore. Invece.
Carlo Raffaelli, tenore italo-scozzese, testimonial dell’opera lirica nel mondo. Come si arriva a questo risultato partendo da Edimburgo, ma passando prima per Pieve Fosciana?
“Questa è una storia familiare. Mio padre Eugenio emigra in Scozia, seguendo il flusso enorme di emigranti della Garfagnana e Mediavalle. Andò là perché mio zio Bruno, suo fratello, aveva aperto un ristorante italiano; questo primo locale ebbe molto successo e poi aprì il ristorante Raffaelli, di cucina fiorentina, uno dei primi, all’epoca, di cucina regionale, toscana nello specifico. In Scozia, poi, papà ha conosciuto la mamma, Kristine, che insegna arte scenica all’università Queen Margaret”.
Quindi Carlo nasce in Scozia e cresce con uno sguardo rivolto sempre verso l’Italia.
“In casa era come vivere in Italia: avevamo la televisione italiana. In giardino era come stare in Italia e solo affacciandomi al cancello sentivo l’inglese. Quindi, sì cresco bilingue, ma con molta attenzione alla cultura italiana. Infatti, molti toscani emigrati, almeno dell’epoca del babbo, hanno lasciato l’Italia controvoglia e quindi c’era questo desiderio di mantenere un legame forte con il Paese d’origine. Mio padre ha voluto trasmettermi questa italianità, a partire dalle piccole cose”.
Qual è una “piccola cosa” italiana che ti ricordi nella tua infanzia?
“La musichetta della sigla del telegiornale che sentivo a palla, la mattina. E per tutto il giorno avevamo la televisione accesa sui programmi italiani perché il babbo lavorava la sera e io passavo molto tempo con lui, durante il giorno. Quindi il sottofondo della mia infanzia sono stati i tg in italiano e i programmi di cucina”.
Quindi tu passi infanzia e adolescenza a Edimburgo, studiando lì.
“Oltre alle scuole ordinarie, frequento anche una scuola il fine settimana, sabato e domenica, al Consolato italiano: lezioni per mantenere contatti con la cultura e la lingua. É stata più la mamma a insistere perché andassi, perché anche lei è molto legata all’Italia e al cinema italiano. In particolare ama Sofia Loren, Mastroianni, Gassman. Comunque ho interrotto gli studi abbastanza presto, perché a 14 anni già non volevo più stare in Scozia. Il mio obiettivo era tornare in Italia: io venivo tutte le estati in Toscana, dagli zii, a Viareggio, in Garfagnana, a Campi Bisenzio. Mi ricordo che proprio a 14 anni, un giorno, parlando sul mare il mio zio di Viareggio mi disse: “Ma perché non vieni a fare il bagnino? Quando hai 18 anni, fai il corso e vieni a fare questo lavoro”. Così, a fine estate, rientrai in Scozia, con quell’obiettivo: mi misi in testa di andare a lavorare per mettere da parte i soldi e venire in Italia”.
La musica, quindi, ancora non era nei programmi.
“Per niente. Pensavo a fare il bagnino. Torno in Scozia e vado a lavorare in un hotel a 4 stelle a servire le colazioni con un italiano di Sorrento. Era un amico del babbo che gestiva la parte della ristorazione dell’hotel e mi dette questa opportunità: a volte lavoravo anche prima di andare a scuola. Volevo i soldi per venire a Viareggio: quindi, ho lavorato anche in un negozio di abbigliamento, in un negozio di scarpe e a 17 anni ero pronto per venire in Italia. Ho seguito a Pisa il corso da bagnino, ho trovato lavoro da aiuto bagnino al bagno Lelia di Viareggio, sulla terrazza della Repubblica: all’epoca abitavo a Firenze e facevo avanti e indietro tutti i giorni. A fine giornata ero morto”.
Poi arriva la musica.
“Niente affatto. Dopo la stagione vado a lavorare in un negozio di abbigliamento a Firenze, senza avere ancora un obiettivo chiaro nella vita”.
Ma non aveva neppure iniziato a cantare? Non aveva mai cantato in vita sua?
“Non proprio. Mi ricordo che a scuola, in Scozia, mi pare alle elementari, qualcuno mi aveva sentito canticchiare e volevano che cantassi nel coro. Però, siccome giocavo a calcio ed ero abbastanza bravino, non accettai. All’epoca, infatti, specialmente in Scozia, chi cantava in un coro era visto come lo sfigato di turno; quindi non ci pensai neanche. In realtà mia madre me lo ha sempre detto che ero in grado di cantare, ma non è mai stata una mamma pressante e quindi non mi ha mai spinto a fare qualche cosa. Neppure a cantare. A volte penso che sarebbe stato meglio se avessi iniziato prima, ma alla fine meglio così perché almeno le cavolate le ho fatte fino a 25 anni. E comunque spero che anche l’esperienza maturata in vari campi mi possa aiutare nella carriera da cantante”.
Perché fino a 25 anni?
“Perché fino a 25 anni non avevo mai visto un’opera. Avevo sentito parlare di Puccini, certo, ma conoscevo giusto il “Nessun dorma”. Di Verdi conoscevo “La donna è mobile” (da Rigoletto); di grandi tenori conoscevo per nome Pavarotti, Domingo, ma ero proprio ignorante in materia”.
Dopo l’esperienza da bagnino, che cosa succede?
“Lavoro un po’ come modello, un po’ per caso: una persona che lavorava nell’ambiente mi propone di fare un casting. E penso: perché no? É un modo per viaggiare e guadagnare, l’ideale per una persona come me che all’epoca non voleva avere troppa stabilità. Poi mi era venuta voglia anche di fare l’attore, di fare qualche cosa in teatro: non sapevo bene come e cosa, però avendo, comunque, mia madre che insegnava direzione scenica, che mi aveva trasmesso la passione per il cinema italiano, mi piaceva l’idea di provare. Non sapevo neppure se fossi portato. Comunque ho provato e ho ottenuto anche in discreto successo, anche con un regista nordamericano che mi aveva voluto per girare un film alle Cinque Terre. L’esperienza andò anche bene”.
Però non diventa neppure attore.
“No. É stata una bella esperienza, ma non è scattato quello che è scattato con l’opera. Quindi non mi fermo, ero ancora in cerca della mia strada. L’unico punto fermo era che volevo essere autonomo, non gravare su nessuno. In Scozia, già avevo fatto di tutto, già da ragazzino: ero stato giardiniere e avevo anche messo su un’attività di catering con un amico benestante. Gli amici dei suoi genitori organizzavano sempre feste e noi, oltre a proporre le nostre pizze, facevamo i camerieri: avevamo 14 anni e ci sembrava di essere ricchi perché ci davano anche il centone come mancia. Così a Firenze inizio a portare in giro i turisti con il risciò, in un’azienda di un imprenditore di Pietrasanta. Fra l’altro andavo anche in bicicletta, mi piace il ciclismo: una passione trasmessa dal babbo che guardava sempre il Giro d’Italia. Mi ricordo che era fissato con Pantani. Quindi l’idea di pedalare per Firenze e di raccontare un po’ di storia ai turisti mi piaceva. Ma ancora non avevo un obiettivo chiaro. Quando portavo il risciò, comunque, canticchiavo: quando non funzionava il campanello, canticchiavo, per farmi spazio. Impostavo la voce e la gente si girava”.
Ma come arriva dal canto sul risciò allo studio della musica? Il salto logico appare un po’ forte.
“A Firenze avevo un amico che, in piazza della Repubblica, suonava uno strumento di sua invenzione. Per me lui suonava e cantava benissimo. Una sera, eravamo in piazza Santo Spirito, gli chiedo se, per caso, conoscesse un maestro o una maestra di canto. Mi dà il numero della professoressa Catia Magnani. L’indomani la chiamo e vado, ma non sapevo neanche cosa fare. Lei mi chiese di cantare qualche cosa. Io le risposi: “Mi vergogno, non so neppure se mi esce la voce”. Alla fine cantai “Guarda che luna” di Fred Buscaglione. Terminata la canzone, lei commentò: “Sai che sei tenore”? Sul momento ero un po’ scettico, eppure mi aveva fatto scattare nel cuore, nella mente, nell’anima qualche cosa che non mi era mai scattato prima”.
A quel punto che cosa accade?
“Passano altri 8 mesi. E si arriva al 2017. Ma io ormai ero incuriosito. Le parole della maestra non mi uscivano di testa. Ancora, però, non avevo visto un’opera. Non mi ero neppure informato più di tanto, perché non sapevo neanche dove andare a cercare. Era marzo 2017 e torno dalla maestra Magnani e dico: proviamo. Voglio provare a fare il tenore. Quindi mi iscrivo al conservatorio e continuo, però, anche con l’attività di risciò, pensando di poter portare avanti tutte e due le cose. Ci ho provato: prima andavo a lezione, poi dieci ore di pedalate: ma la sera arrivavo stanco morto e senza voce. Poi, è arrivato il Covid e mi sono focalizzato sul canto e sullo studio”.
Per entrare al conservatorio, sarà stato necessario superare un esame. Com’è andata? Lei non aveva anni di studi di musica alle spalle.
“Sono sicuramente uno studente atipico. Riesco, comunque a passare il test di ingresso e mi iscrivo al conservatorio Cherubini di Firenze. Mi presento con un brano da La Molinara di Paisiello, “Nel cor più non mi sento”, preparato con la maestra Magnani. Mi sentivo un pesce fuor d’acqua. Poi inizio i primi concorsi: un disastro, perché l’ansia da prestazione mi divorava. Ho passato anche un momento di confusione: avevo iniziato a confrontarmi con vari maestri, ognuno mi dava un consiglio diverso. Non capivo più nulla. Fino a quando seguo una masterclass a Mola di Bari con il tenore Francesco Meli. Ma non ero preparato per niente. Arrivo lì con alcune arie che se ci ripenso ora quasi mi vergogno. Porto l’aria “Quando le ser al placido” dalla Luisa Miller di Verdi. E proprio Verdi è stata la mia salvezza”.
Perché Verdi è stata la sua salvezza?
“Perché per un po’ di tempo non erano certi che fossi un tenore. Anche in conservatorio, siccome non riuscivo ad andare tanto su con la voce, la maestra Taddei mi diceva: “Sei baritono”. Ogni volta che si provava un compositore – Mozart, Rossini – il responso era sempre il solito: “No, sei baritono”. Poi siamo arrivati a Verdi e abbiamo provato l’aria di Oberto di Bonifacio “Ciel che feci…”. In quell’occasione, senza esitazione, mi disse, senza esitare: “Sei tenore”. A quel punto mi iscrivo alla master class di Meli. E mi cambia tutto”.
Perché?
“Perché fino a quel momento io pensavo solo a emettere suoni. Lui è stato il primo maestro di canto che mi dice qualche cosa sul testo, sulle dinamiche, sull’aspetto musicale. Mi spiega di rispettare la terzina perché ti aiuta vocalmente. Per me Meli è stato fondamentale: è proprio una questione di incontro che ti cambia la percezione, la visione dell’opera in generale. Meli, fra l’altro, mi aveva premiato anche con un concerto al Carlo Felice di Genova e poi mi ha suggerito di studiare con il suo maestro Vittorio Terranova. Ho cominciato, così, a studiare con un tenore e a ragionare da tenore, pensando all’importanza degli acuti, ad esempio. E una volta a settimana vado da Milano da lui che, dal punto di vista tecnico, mi ha sbloccato, gli acuti; ho cominciato con la parte di testa, di squillo. Francesco mi ha insegnato tanto per la parte musicale e interpretativa. Mi ha insegnato a rispettare quello che è scritto nello spartito. E mi ha fatto capire che la parola nell’opera è importante”.
Che cosa intende quando sottolinea che la parola nell’opera è importante?
“Rispondo usando le parole sempre dell’amico di famiglia che è venuto a vedere La Bohème a Torre del Lago. Prima di assistere all’opera mi ha detto: “Tutti i miei amici mi dicono che non si capisce nulla”. Quando è venuto a teatro è stato tutto il tempo con gli occhi fissi sugli schermi che proiettano quello che noi cantiamo. Al momento dei saluti mi ha detto: “Guarda che non hai sbagliato una parola”. Non si è preoccupato degli acuti, ma di comprendere la storia e il canto. Eppoi si è affrettato a chiedermi se canterò ancora a Torre del Lago quest’anno perché è rimasto affascinato dal teatro, da tutta la gente che viene a sentire i capolavori di Puccini, dalla quantità di stranieri che ha visto e anche dai tanti suoi amici che ha incontrato. Ora il suo pensiero è tornare prima possibile. Noi non ci rendiamo conto, ma l’opera è popolare, nel senso che è del popolo. Spesso pensiamo che costa tanto, ma poi vediamo quanto costano i biglietti per un concerto di un cantante pop: per quel tipo di spettacolo non ci si lamenta a pagare anche 200 o 300 euro”.
Fino a pochi anni fa anche lei non andava all’opera, però.
“Oggi dico che è uno spettacolo unico. Perché vedere un’opera è un’esperienza, è l’insieme della sensazione che provi a trovarti con migliaia di persone e a condividere una speciale atmosfera. Io ho visto la mia prima opera, Turandot, proprio a Torre del Lago. Si parla di alcuni anni fa: dirigeva il maestro Veronesi, nel ruolo del principe Calaf c’era il tenore Amadi Lagha. Al di là della produzione, sono rimasto colpito dall’insieme: l’orchestra, le scene, i costumi. Ho avuto la sensazione che tutti, in teatro, stessimo respirando la stessa aria. Eravamo seduti uno accanto all’altro – uno più ricco, uno meno; uno di destra, uno di sinistra; un esperto e uno che ci capisce meno – e tutti esposti alla stessa emozione. Questa è la cosa che mi muove. Poi, da artista quando ti prende il palcoscenico è una dipendenza. L’altra sera, finita La Bohème volevo ricominciare subito da capo”.
Ne La Boheme a Torre del Lago lei era Rodolfo, il tenore protagonista. Quando avviene il suo debutto?
“Nel 2022, direi abbastanza presto, considerando che sono entrato in conservatorio nel 2017. Poi ho frequentato l’Accademia di Alto perfezionamento del teatro comunale Pavarotti-Freni a Modena. Poi inizio a partecipare ai concorsi: a Spoleto risulto fra i vincitori e mi offrono il ruolo di don Josè ne “La tragedie de Carmen”, adattamento da la Carmen di Bizet che per il cinema aveva realizzato a inizio anni Ottanta aveva sperimentato Peter Brook. A Spoleto l’allestimento venne prodotto con la regia del livornese Alessio Pizzech, artista molto esigente. É stata una bellissima esperienza lavorare con lui”.
Che cosa segue a questo debutto?
“Subito una produzione di Traviata (Verdi) in forma semi-scenica in Sicilia con il maestro Terranova. La carriera stata iniziando a decollare, ma proprio in quella circostanza subisce un brutto arresto: per un tuffo in piscina, mi perforo un timpano e sono costretto a fermarmi per dieci mesi”.
Fermarsi quasi un anno dopo il debutto rischia di compromettere una carriera.
“Purtroppo avevo anche già alcuni ingaggi, ad esempio con il teatro di Modena, ma sono obbligato a fermarmi. Con il timpano perforato non riesco a cantare. Avevo anche vinto un altro concorso internazionale a Portofino, da una fondazione estera, con una giuria importante. Il problema è che la perforazione era minuscola e quindi non si poteva intervenire con la chirurgia; dovevo solo portare pazienza e aspettare che si chiudesse. Così sono stato bloccato da settembre 2022 a giugno-luglio 2023: in pratica sono ripartito da capo”.
Che cosa fa ripartire la sua carriera, dopo il blocco forzato?
“Grazie proprio alla borsa di studio vinta con il concorso a Portofino: il premio prevedeva concerti in tutto il mondo. Una sera ho mi cartellone un concerto al teatro Regio Parma. Tengo un concerto proprio a Parma e qui il maestro Agiman: “Carlo ti andrebbe di cantare “Ah! si, ben mio…” e “Di quella pira…” (da Il trovatore). Ero titubante, poi penso: ma è Parma, il teatro verdiano per eccellenza…Una bella sfida, mi fa presente il maestro. Quindi mi decido: ci provo. Ebbi successo. Dopo l’esecuzione il maestro si girò verso il pubblico e già era partito un bell’applauso. A fine concerto alcuni mi cercarono per propormi l’opera: “Vorresti fare Il trovatore”? Ma io risposi: “No, no, grazie”. Non ero pronto. Non lo sono ancora, ma un giorno mi piacerebbe affrontare questa opera. I ruoli che mi piacciono sono tanti, ma la voce è una. Comunque anche cantare a Torre del Lago non è stato facile. C’è chi mi ha detto che alcuni artisti, dopo l’esibizione all’aperto, non cantano più. Ma io a fine spettacolo mi sono messo a fare di nuovo a fare gli acuti e ci sono riuscito: la voce, quindi, è a posto”.
Escludendo il festival Puccini, qual è il ruolo più importante che ritieni di aver interpretato finora?
“Al Regio di Parma, l’anno scorso ho fatto cover (il sostituto) di Cavaradossi in Tosca (Puccini). Mi hanno chiamato cinque giorni prima delle prove per un’audizione: sostengo l’audizione e il direttore artistico mi dà la mano. Vengo preso, anche se preciso che di questa opera conosco solo il duetto con Tosca. Imparo tutta l’opera in cinque giorni e vado a fare le prove: a dirigere c’era il maestro Oren. Ho avuto la fortuna di lavorare (duro) con lui. Un aneddoto chiarisce bene quello che vorrei dire: stavamo provando una frase del duetto del primo atto. Stavo pronunciando “…Floria t’amo” quando sento la voce del maestro Oren: “Tenore, come dici t’amo?”. Mi fermo e domando: “In che senso maestro?”. Mi risponde: “A una donna che ti piace, come dici t’amo?”. Lo seguo e riprendiamo: riesco a fare un suono, un piano bellissimo, grazie alle sue indicazioni. Ecco forse il ruolo di Cavaradossi in Tosca sarebbe quello che mi piacerebbe debuttare a breve. Ma mi piacerebbe anche cantare tutto il primo Verdi: Attila, Il corsaro, I lombardi alle crociate, anche Luisa Miller, Simon Boccanegra. Quando canto tanto Puccini ho bisogno di sentire, poi, come sta la mia voce e Verdi ti fa capire subito come sta la voce”.
Dopo il successo de La Bohème a Torre del Lago, quali teatri la aspettano?
“A settembre due debutti: il 12 settembre “L’amico Fritz” di Mascagni a Livorno e a fine mese Alfredo in Traviata a Novara, al teatro Coccia. Poi ho concerti a Malaga, in Giappone (a Tokyo) e in molte altre città”.
C’è un teatro al quale aspiri?
“In Europa, sicuramente il teatro Real di Madrid e il Liceu di Barcellona: in questa città sono stato a fare il modello, ora ci vorrei tornare come cantante. A Madrid, invece, non sono mai stato e vorrei tanto cantare al teatro Real, famoso per le sue produzioni di qualità e per i grandi direttori d’orchestra che vi dirigono. Non a caso, hanno come director asociado Nicola Luisotti, toscano come me.
Vorrei anche debuttare a Vienna, un teatro di grande fascino e qualità. Fuori dall’Europa, un mio traguardo sarebbe cantare al Metropolitan di New York”.
I tuoi genitori, che tanto hanno voluto mantenere i legami della famiglia con la cultura italiana, vengono a vederti in teatro?
“Cercano, compatibilmente con la logistica. A Parma, ad esempio, l’anno scorso è venuta la mamma: è rimasta in Italia solo per 36 ore, ma non si voleva perdere il concerto. MI ha detto: “Mi sentivo ubriaca e lì per lì non ti ho riconosciuto. Ma poi, quando ti ho visto ho capito che avresti avuto successo solo per il modo con cui sei entrato sul palco”. Forse in quel momento ha capito anche lei che avrei avuto la possibilità non solo di avere un futuro, ma anche una buona carriera. Ha compreso che con la lirica sono arrivato a casa”.