«La nave è inclinata».
Mi aspettavo che il suo occhio fosse cascato su quel centinaio di persone che, come formiche, come in processione, aspettavano di scendere a terra.
«Ma si rende conto che è buio e qua non vediamo niente?».
Mi aspettavo una giustificazione degna di essere chiamata tale o, per qualsivoglia motivo, definibile come “plausibile”.
Fin dal primo momento c’è stato un accanimento mediatico sul comandante Schettino fino al punto, complici forse anche chi avrebbe potuto difenderlo, di farlo diventare il capro espiatorio di una tragedia. Di solito è usanza italiana. Mi sono chiesto e mi chiedo ancora se sia così, cercando di sorvolare ogni giudizio in merito sperando invece in una notizia di merito. Niente. Anche al di là della telefonata solo una cena a bordo prima dell’impatto fatale, la richiesta, il giorno dopo, di vestiti asciutti al tassista e di un caffé con molto zucchero alla reception dell’hotel. In alcune persone, per il ruolo che ricoprono, è riposta la fiducia e la speranza. Nei momenti di paura e di smarrimento fiducia e speranza rimangono appigli a cui aggrapparsi come scogli. Schettino (non c’è bisogno di chiamarlo comandante) non ha fatto questo. E di tutte le colpe che gli vengono imputate forse non spetta a me imputargliele, non quelle giudiziarie e nemmeno quelle marinare. Ma una sì, non mi sento in dovere ma i diritto di imputargliela: quella di non aver dato fiducia e speranza a quel centinaio di persone che, come formiche, come in processione, aspettavano di scendere a terra.
Mi aspettavo e mi aspetto ancora una storia bella da raccontare per non far naufragare anche la speranza. La paura del buio. Vorrei che me la potesse raccontare quella bambina di cinque anni. La paura del buio. Vorrei che potesse essere un racconto a lieto fine nelle parole di una bambina e non la mera, stupida, codarda giustificazione di un comandante.
Mi aspettavo e mi aspetto ancora…“è stupido non sperare, pensò. E credo che sia peccato” (Il vecchio e il mare – Ernest Hemingway)

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