ROMA – “A prescindere dalla tempistica, la privatizzazione costituisce un punto di arrivo necessario”. A pochi giorni dal fallimento della trattativa tra Governo e Unicredit per l’acquisto di Mps, è stato il direttore generale del Mef, Alessandro Rivera, ad essere ascoltato in audizione davanti alle commissioni Finanze di Camera e Senato.

Una “permanenza sine die dello Stato nel capitale”, ha spiegato il tecnico, non è “uno scenario ipotizzabile” alla luce degli impegni assunti con la Ue in occasione del salvataggio del 2017, tra i quali figura, appunto, la dismissione della quota.

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Il Tesoro, in questa fase, sta già trattando con la Ue “una proroga che sia di durata adeguata”, anche se al “momento non quantificabile”, ma comunque “congrua con un lasso temporale sufficientemente lungo per porre in essere ulteriore azioni di rafforzamento della banca e migliorare le sue prospettive reddituali”.

La proroga dovrà però essere accompagnata da “misure compensative” con cui ‘pagare’ il prolungamento del sostegno statale e il mancato conseguimenti di alcuni obiettivi del piano di ristrutturazione, in primis quello sul rapporto tra costi e ricavi (atteso al 50,6% a fine 2021 ma fermo al 74,9% a fine 2020). Mps dovrà definire un nuovo piano “che sia all’altezza di questo traguardo” e dunque “solido e credibile”. Attesa una stretta sui costi, con un aumento degli esuberi rispetto ai 2.700 previsti dalla banca, che saranno comunque “solo volontari”.

Al Tesoro preme che il piano sia “convincente” non solo per la Bce e la Ue ma soprattutto “per il mercato” non volendo ripetere l’esperienza del 2017, costata 5,4 miliardi di euro ai contribuenti. “Lavoriamo a una soluzione di mercato” e “se non c’è aiuto di Stato, non c’è burden sharing”, ha detto Rivera, secondo cui l’aumento, stimato da Mps in 2-2,5 miliardi, resta “necessario” anche se “è presto” per quantificarlo.

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