Foto pagina Facebook Simone Zacchini

Una pandemia affrontata quotidianamente su giornali, tv, social. Un virus, il Sars Cov-2, che è diventato un compagno, poco gradito, quotidiano delle nostre vite; un nemico invisibile e micidiale allo stesso tempo analizzato dal punto di vista medico-scientifico in tutte le sue più piccole sfaccettature. Ma quali sono e quali saranno gli effetti e le ferite che il Covid-19 lascerà nella nostra società e nel nostro essere? Agenziaimpress.it lo ha chiesto a Simone Zacchini, docente di filosofia della cura all’Università di Siena.

Professore in che modo il virus ha impattato sulla nostra vita quotidiana?
«Noto una discrepanza tra una società ipertecnologica come la nostra e la pandemia che invece è un male antico, arcaico, primitivo. Stiamo cercando di immaginare una soluzione con la nostra mentalità, di cultura della tecnologia, quando invece questo male è molto più antico. Infatti i rimedi più efficaci che stiamo adottando sono quelli già conosciuti fin dal Medioevo. Per noi, abituati ad avere tutto e subito è scioccante. Poi c’è una concezione errata della scienza che ci aspettiamo sia un prontuario di risposte; e invece la scienza ci ha dimostrato che ha tempi di soluzione più lunghi. Il nostro errore è scambiare la scienza per tecnologia quando in realtà la tecnologia è un frutto della scienza. La scienza ha tempi di concretizzazione molto lenti. Quindi vedo un doppio binario, quello lento della nostra conoscenza del virus e quello veloce della nostra società che vuole tutto e subito, visto che a questo ci ha abituati la tecnologia. Dal punto di vista esistenziale l’uomo deve reimparare a vivere con una velocità diversa, una lentezza che ha smarrito, e deve adattare il proprio stile di vita a ritmi molto più lenti rispetto a quelli cui è abituato. Questo può sembrare un’eccezione, invece l’eccezione è proprio la velocità che abbiamo acquisito negli ultimi 20 anni. E’ come se la pandemia riportasse la nostra esistenza ad un punto di vista cui non eravamo abituati e questo è faticoso, ma è uno stile di vita smarrito da parte della nostra cultura».

Come sono cambiati i nostri rapporti sociali?
«Da una parte il virus ha allentato I rapporti puramente virtuali, tenuti in piedi da una convenzione che abbiamo attraverso social e tecnologie e ha riportato in primo piano il valore della persona, la sua singolarità. E noi, abituati ad una morte anonima, quella che Heidegger chiamava ‘morte del Si impersonale’, sappiamo che si deve morire ma questo “Si” non ha un volto. Questa pandemia ci ha riportato il volto della morte, perché tutti conosciamo qualcuno che è toccato dal virus e che ha rischiato la morte: l’amico, il vicino, il coinquilino, il familiare. La morte è uscita da quel rimosso dove la cultura attuale l’ha spinta, da trattare come qualcosa di anonimo e di innominabile, per riportarla nelle nostre vite. Oggi la morte sono le sirene delle ambulanze, i bollettini sanitari; non è più qualcosa che non ci tocca ma è qualcosa che abbiamo sotto gli occhi e che ci potrebbe coinvolgere da un momento all’altro».

Come la pandemia ha cambiato il concetto della morte?
«Da punto di vista filosofico la morte di un familiare che non possiamo curare e andare a trovare riporta nelle nostre vita il concetto della nostra morte. La morte è uscita dalla convenzione in cui si muore, si chiama l’agenzia di pompe funebri, si fa il funerale e tutto è regolato. Saltando questa struttura rituale che ci siamo dati per elaborare il lutto, il lutto torna a essere presente in noi, nella mancanza di questa presenza del corpo del defunto. Questo ha un impatto filosofico importante, noi siamo abituati a fare progetti a lunghissima scadenza come se dovessimo vivere per sempre. La pandemia ha ristretto i nostri progetti, rendendoli più vicini a una vita alla giornata in cui la morte è entrata come possibilità sempre aperta che ci crea ansia e angoscia ma ci insegna anche vivere il nostro tempo nel miglior modo possibile. Questo è il grande insegnamento della filosofia antica, penso a Socrate, a Seneca che ci insegnano a vivere tenendo accanto a noi l’idea della nostra fine, e quindi scegliere bene il tempo che vogliamo vivere e come lo vogliamo vivere. Questa crisi permette di rivedere la struttura delle nostre attività. Nella progettualità continua siamo dispersi, tra un progetto e un altro non abbiamo più tempo di ritrovarci. La condizione che stiamo vivendo può essere positiva a patto che si ritrovi il nostro tempo, il tempo lento, perché la presenza della morte ci invita a vivere più per noi che non per la dispersione quotidiana e i mille impegni che abbiamo».

In che modo il virus ha inciso sui nostri affetti?
«Con la diffusione del virus gli affetti si sono stretti maggiormente in quelli che sono realmente affetti e si sono allentate le morse di relazioni convenzionali; è saltata l’idea che possiamo avere tempo illimitato per tutti e che noi possiamo essere parte della vita e dei progetti di chiunque. Siamo diventati più critici nello scegliere le persone con cui passare il tempo perché il tempo si è impreziosito enormemente, è sempre meno, è sempre più vissuto nella consapevolezza che domani potrei essere io quello intubato».

Come è cambiato il nostro modo di percepire il futuro?
«Il nostro futuro è sempre stato una possibilità, mai una certezza ma non ci pensiamo mai e prendiamo impegni per il prossimo anno. Questa idea ora si è ristretta, ora siamo molto più critici nel pensare se quell’impegno vale la pena di prenderlo perché non abbiamo più l’idea che siamo illimitati. Non è che siamo più mortali adesso rispetto a prima, ora siamo solo più consapevoli che possiamo essere anche mortali. Prima la società tecnologica, leggera e spensierata, ci ha fatto immaginare una vita senza intoppi, per cui anche una malattia diventa uno scandalo. La nostra umanità, invece, è fatta di malattia, crisi e di morte».

Quali sono le fasce della popolazione che più stanno risentendo della pandemia?
«Sicuramente sta condizionando tanto la fascia scolare degli adolescenti: si chiede loro una responsabilizzazione che non hanno mai avuto e che spesso viene data per scontata perché la scuola li regimenta. E questo è scioccante ma credo non basterà un appello, dopo la crisi pandemica occorrerà rivedere come le nostre scuole sono concepite dal punto di vista dell’educazione civica. Sicuramente quella degli adolescenti è una delle fasce che, quando il Covid-19 se ne sarà andato, potrà avere gli effetti più concreti. E poi ci sono gli anziani, la fascia più esposta. La loro è una fragilità legata all’età che si acutizza e si esaspera con questa presenza del virus. Parlo di 60enni che fino a ieri erano considerati giovani, e ora si ritrovano statisticamente nella fascia più esposta e in quella delle persone deboli da proteggere. Questo è un grande rivolgimento esistenziale perché un 60enne fino a ieri era considerato nel pieno della sua attività lavorativa la cui pensione veniva procrastinata fino a 10 anni di più, ora è nella fascia da proteggere e questo crea la consapevolezza di essere fragili e deboli».

Che società ci lascerà la pandemia?
«Io sono più abituato a leggere i segni che ho di fronte a me, piuttosto che immaginare quelli che saranno, ma posso ipotizzare che alcune cose non ci lasceranno più. L’idea che l’altro è una persona che ci può infettare, idea che striscia sempre sotto varie forme nella nostra mentalità e che noi abbiamo cercato di reprimere, sia nelle forme di razzismo, sia in quelle più elementari della convivenza civile. Uno degli elementi da tenere sott’occhio sarà quello del rapporto con l’altro, se riusciremo a fare di nuovo comunità o se l’idea che devo “scansarmi” resterà dentro di noi. Penso che si formeranno nuclei sempre più piccoli di comunità, stretti dal punto di vista dell’affettività. Lasciando fuori rapporti interpersonali occasionali, che ci porteranno ad avere occhio di sospetto verso la persona che abbiamo di fronte. I gruppi familiari saranno più intimi e chiusi perché l’altro se non lo conosco bene, può ancora essere portatore della malattia».

Cosa ci lascia la pandemia?
«Non è la pandemia in sé che può lasciare qualcosa, come tutte le crisi, grandi e piccole che siano, inizialmente ci schiaccia e annichilisce poi sta a noi risolverla per il meglio. Sta a noi impostare un modo di vita che va ricostruito, non possiamo recuperare semplicemente uno stile di vita del passato e c’è bisogno in questo dell’impegno di tutti. Dopo la peste del ‘300 è nato il Rinascimento. Ora sta a noi capire se, come e in che modo vogliamo rifiorire. La pandemia è come una guerra che lascia delle macerie e dalle macerie nasce la ricostruzione, forse anche un mondo migliore ma dipende da come le persone vorranno vivere, come la politica vorrà ricostruire e come i rapporti sociali verranno ristabiliti. Solo chi vivrà potrà vedere i cambiamenti nel futuro prossimo e in quello più lontano».

Sarà un cambiamento lento?
«Secondo me sì. Avremo certamente degli effetti immediati di sistemazione della vita quotidiana senza la quale non possiamo vivere, dobbiamo tornare a distendere la nostra esistenza in un lasso di tempo che non sia quello dell’attesa di un Dpcm, ma quelli a lunga scadenza saranno quelli da monitorare più attentamente. Non è pensabile che tutto possa risolversi in modo veloce, non possiamo più immaginare una vita senza questa esperienza così come negli anni Cinquanta non era possibile immaginare di ricostruire senza l’esperienza della guerra appena conclusa. Dobbiamo sperare e scommettere nell’uomo e impegnarci tutti, ognuno nella sua specialità».

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