L'abate Romualdo Zilianti

Un ricordo di famiglia che ha il profumo della storia. In occasione della Giornata della Memoria riceviamo e volentieri pubblichiamo una storia inedita legata ad Abbadia San Salvatore (Siena) dove un religioso, senza troppi indugi, si prestò per la presentazione di documenti falsi per salvare alcuni cittadini ebrei dall’orrore dei campi nazisti. A inviarcela Mario Pesenti.

Oggi Giornata della Memoria, che ricorre in un momento in cui la memoria rischia di diventare più corta e labile, voglio raccontare una piccola storia su quanto fatto da un nostro concittadino per permettere la fuga e assicurare la salvezza di alcuni internati ebrei rifugiati dall’Europa dell’est.

Si chiamava Romualdo Zilianti (Pietro in famiglia), nativo di Abbadia San Salvatore (Siena), già priore dell’ordine benedettino olivetano a Camogli, nel 1935 era stato eletto abate del Santuario della Madonna del Pilastrello di Lendinara, dove sarebbe rimasto per  11 anni segnalandosi sul piano pastorale e soprattutto, negli ultimi tre anni, su quello umano e civile.

Il 23 ottobre 1943 da Lendinara (Rovigo) tredici persone presero il treno per Rovigo. Da lì
avrebbero continuato il loro viaggio per Roma.

Chi erano e perché si recavano tutte nella capitale? Erano 13 ebrei rifugiati dall’Europa orientale arrivati in Italia nel 1941 per sfuggire le persecuzioni avviate dai tedeschi e dagli ustascia croati dopo l’occupazione della Jugoslavia. Si trattava di due famiglie austriache (Heinrich Jugmann e la moglie Marta Zalud; Tobia Weininger e la moglie Irma Beck), due iugoslave (Filippo Spitzer con la moglie Clara Ivanusa, e i figli Greta e Ernesto minorenni; Ferdinando Schoenwald con i figli Nada e Wilhelm) a loro si aggiungevano Stefano Stein, iugoslavo e Herbert Marbach, austriaco. La loro vita era senz’altro più sicura. Dopo un primo alloggio in due locande cittadine, si erano sistemati in appartamenti. Dovevano sottostare ad alcune proibizioni e obblighi: divieto di uscire di casa dal tramonto all’alba, divieto di abbandonare il territorio comunale e obbligo giornaliero di firma nel registro comunale degli internati. Non potendo svolgere attività lavorativa, sopravvivevano grazie al sussidio erogato dallo stato anche se veniva tollerato dalle autorità il fatto che si arrangiassero facendo lavoretti in nero. Il podestà Fasiol concedeva spesso loro il permesso di andare al cinema, di andare a trovare i parenti nei comuni vicini e di farsi visitare da un medico. Dava anche loro la possibilità di recarsi a Rovigo per poter presenziare ai riti religiosi (la religione ebraica impone che per essere valida la preghiera richiede la presenza di dieci maschi adulti, a Lendinara sono solo sette) officiati da un medico improvvisatosi rabbino, il dottor Guido Consigli, e qui avevano conosciuto altre due famiglie internate, i Weissmann e gli Hendel.
La caduta del fascismo e l’armistizio di Cassibile misero fine alla fase di relativa “tranquillità”
per gli ebrei polesani (ricordiamo che vigevano sempre le leggi razziali del 1938). Quando i
soldati della Wermacht cominciarono a occupare il territorio italiano apparve all’orizzonte un futuro oscuro. Qui prese avvio l’operazione salvataggio.

A quanto ci risulta l’abate Zilianti, rettore del Santuario della Madonna del Pilastrello di
Lendinara, presentendo quanto stava per avvenire, convocò gli ebrei del paese, avvertendoli del pericolo di un’imminente persecuzione da parte dei tedeschi che stavano occupando l’Italia. Raccomandò loro di mettersi in salvo e preparò un’iniziativa per metterli in salvo. Procurò loro i documenti falsi, il denaro e i biglietti ferroviari per la capitale. Infine fornì loro degli indirizzi sicuri a Roma dove avrebbero trovato ospitalità (forse in alcuni conventi).
L’operazione così raccontata sembra un po’ semplicistica. Molto probabilmente è più
complessa e presuppone la presenza di altri soggetti. Innanzi tutto chi aveva fornito i
documenti falsi? Per rispondere bisogna tornare indietro, all’estate dell’anno precedente,
quando a Papozze, comune a una cinquantina di chilometri a est di Lendinara, con un gesto di eroismo un ebreo, Edoardo Kopp, aveva salvato dall’annegamento nel fiume Po Giorgio Pivanti, il figlio del podestà locale. L’atteggiamento di costui verso gli internati cambiò completamente trasformandosi da tolleranza in aperta amicizia. Nulla sappiamo dei rapporti tra l’abate e il podestà, ma si può ipotizzare che siano stati abbastanza stretti da far sì che il podestà potesse fidarsi del religioso tanto da consegnarli dei pericolosi documenti ufficiali.

Ma torniamo al racconto.

Il podestà firmò delle carte d’identità attestanti la falsa identità dei rifugiati trasformandoli così in cittadini italiani, di razza ariana e residenti tutti a Papozze. Nel giro di qualche giorno, dopo aver ricevuto da mons. Zilianti il denaro necessario al viaggio, senza dare
nell’occhio, tutti si allontanarono da Lendinara per andare a Roma dove vennero accolti e
nascosti in strutture religiose grazie a lettere di presentazione date loro dal religioso.
La scomparsa degli internati a Lendinara e Papozze fu volutamente segnalata con qualche
giorno di ritardo, il che permise il successo della loro fuga. Il 23 ottobre furono gli ebrei di
Lendinara i primi ad allontanarsi, poi il 26 si allontanarono quelli di Rovigo e di Papozze. In
tutto 14 persone. Li ritroviamo a Roma dopo la liberazione e non sappiamo niente della loro vita nella capitale.

I documenti ufficiali ci attestano che insieme a 9 degli internati di Lendinara, quelli di Rovigo e di Papozze s’imbarcarono a Napoli su un piroscafo americano con il quale nel luglio 1944
arrivarono alla base militare di Fort Ontario, Oswego nello stato di New York, USA. Gli Stati
Uniti divennero la loro nuova patria. Dei tredici “lendinaresi” solo Herbert Marbach non riuscì a salvarsi: catturato dai tedeschi fu deportato a Auschwitz dove perì in data sconosciuta. Mentre Weininger e la moglie rimasero a Roma e nel dopoguerra ritornarono a Lendinara dove avviarono un’attività commerciale e vissero lì fino alla morte. Anche Stefano Stein risulta presente a Roma il 10. 10. 1944 ma non abbiamo notizie sul suo destino.
Probabilmente ai 27 fuggitivi dobbiamo aggiungere un gruppo di 7 persone internato a
Castelguglielmo (Rovigo), distante solo 9 chilometri da Lendinara che ha usato lo stesso
escamotage: allontanatisi il 20.10.1943 li incontriamo di nuovo a Roma nell’autunno del 1944. E quasi certamente altre 4 persone, la cui ultima presenza era stata segnalata a Castelguglielmo il 19.10.1943, hanno seguito la stessa strada, dato che anch’essi si trovavano a Roma il 10.10.1944. Solo ulteriori ricerche potrebbero confermare o smentire questa ipotesi.

Sicuramente i 27 internati ebrei (più, forse gli altri 11) devono la loro salvezza alla generosità di due persone: il podestà Ivone Pivanti e l’abate don Romualdo Zilianti.
A conclusione della storia va ricordato che nel dopoguerra i coniugi Weininger tornarono a
Lendinara dove vissero fino alla morte. Dopo qualche anno Wilhelm Schoenwald tornò a Lendinara per ringraziare il padre abate a nome di tutti per l’aiuto ricevuto e per restituire la somma ricevuta nel 1943. Ma il religioso, eletto abate generale dell’ordine Olivetano, non viveva più lì e nel santuario nessuno sapeva nulla di quella storia.

Mons. Zilianti nel periodo successivo si rese protagonista di un’attività di sostegno della lotta partigiana sotto forma di asilo e di raccolta di finanziamenti che lo portarono nell’autunno del 1944 ad essere arrestato dalla Gestapo e trattenuto in una località sconosciuta per alcuni giorni dove fu sottoposto a pressante interrogatorio. Non essendo emersi elementi a suo carico fu ricondotto al Santuario. Alla fine di aprile 1945 si offrì ostaggio a una squadraccia di militi repubblichini in fuga in cambio della liberazione di 120 persone prelevate dalla chiesa del Santuario dove avevano cercato rifugio e che rischiavano di essere fucilate. Dopo lunghe trattative riuscì ad accordarsi col comandante della banda e ottenne la liberazione degli ostaggi. Nell’immediato dopoguerra fu insignito del titolo di “primo patriota di Lendinara” e di “amico dei partigiani”. Alla partenza dalla cittadina il sindaco lo salutò come “figlio diletto e cittadino di Lendinara”.
“Una corazza di riservatezza e riserbo” (Bagatin) ha nascosto per anni la sua attività e solo recentemente grazie a nuove ricerche storiche è venuta alla luce la sua opera meritoria. Oggi più che mai è necessario ricordare il suo lavoro silenzioso e disinteressato svolto a favore degli altri, mettendo a rischio la sua stessa esistenza.

PS. In famiglia, già perché l’abate era il fratello di mia nonna materna, nessuno sapeva niente su quanto era accaduto a Lendinara. Solo mio padre, che nel 1950 aveva lavorato in uno zuccherificio del Polesine e che forse aveva captato qualche notizia, era convinto che avesse avuto un ruolo attivo nella salvezza degli internati ebrei e lo ha ripetuto fino alla morte. Oggi posso dire che aveva veramente ragione.

 

 

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