(Foto Luca Betti)

Un libro all’improvviso. Non poteva uscire nelle librerie in un momento migliore e peggiore insieme “Un punto di approdo” (Einaudi, pp. 119, € 16, traduzione Anna Nadotti) dello scrittore Hisham Matar, vincitore del premio Pulitzer per la sua autobiografia in cui racconta la scomparsa del padre inghiottito dalle prigioni di Gheddafi. Peggiore perché da quando è uscito, eravamo ai primi di marzo, le librerie sono state chiuse per l’emergenza Covid-19, e migliore perché a leggerlo in questo periodo può aiutare a trovare spunti per interpretare la difficile fase che stiamo vivendo.

Incredibile a dirsi ma per Matar, nato a New York da genitori libici e cresciuto tra Tripoli, il Cairo e Londra, il porto sicuro nel quale trovare rifugio è Siena con la quale, senza averla mai visitata, ha stabilito un dialogo a distanza dall’età di diciannove anni. Complice un dipinto di Duccio di Boninsegna incontrato per caso alla National Gallery di Londra. Da allora, la pittura della scuola senese, a lui non cristiano, ha parlato al cuore e dopo 25 anni, finalmente, trova il tempo di soggiornare in città. “Più quei dipinti mi affascinavano – scrive -, più Siena alimentava in me lo stesso tipo di goffa venerazione che un devoto può provare per La Mecca, Roma o Gerusalemme”. A Siena e ai senesi uno scrittore libico dice quanto sia stata fondamentale la storia dell’arte di questa città per l‘Europa cristiana e per il mondo.

Quasi simbolico è il primo impatto con Siena, sotto la pioggia. “L’autobus ci ha depositati ai margini della città. Ci siamo trascinati dietro i bagagli nel reticolo di stradine fiocamente illuminate. La pioggia si era ridotta a piovischio e il nero acciottolato riluceva. Nelle strade anguste le case sembravano incombere su di noi. Le curve improvvise dei vicoli e la prossimità degli edifici accrescevano la mia sensazione di entrare in un organismo vivente. Ero entrato in un posto insieme familiare e del tutto sconosciuto”.

Un arrivo nel cuore della città che richiama un altro illustre, quello del premio Nobel Josè Saramago descritto ne “Il perfetto viaggio”. Anche lo scrittore portoghese approda a tarda sera, medesima è la pioggia. “Si chiuse la notte in acqua e fu sotto un furioso temporale che entrammo in città, tra lampi allucinanti che lanciavano fuoco sulle case. L’automobile attraversava una città deserta. Per le strade strette, lastricate, l’acqua correva a fiumi”.

Il viaggio in parallelo con Saramago prosegue con la visita di entrambi alla Pinacoteca nazionale, dove il portoghese in un altro libro scrive di avere visto “il più bel quadro del mondo; un piccolo paesaggio di Ambrogio Lorenzetti, poco più grande di un palmo nella sua maggiore dimensione” (“Viaggio in Portogallo”); e che per Matar è una delle prime tappe per fare la conoscenza diretta dei tanto attesi dipinti di scuola senese con cui rimanere in meditazione e solitudine. In compagnia magari di una sedia gentilmente offerta dalle custodi, prima incuriosite dalle visite giornaliere di questo strano visitatore e poi via via abituate, tanto da non fare nemmeno più caso alla sua presenza.

Il libro diventa così una sorta di diario di viaggio nei trenta giorni di soggiorno, condito di ricordi, sogni e suggestioni mentre tra le pagine scorrono le strade di Siena, le mura, le sue porte, la fortezza medicea, l’Oratorio di San Bernardino, la piazza del Campo, definita “gheriglio della città”. “Attraversarla – scrive – è come prender parte a una coreografia vecchia di secoli, fatta per ricordare a tutti gli esseri solitari che non è bene né possibile esistere interamente da soli”. Affermazione che in questi giorni di forzata clausura e isolamento, apre il cuore alla speranza.

Piazza del Campo, “gheriglio della città” (Foto Luca Betti)

Tralascio i tanti spunti che la lettura di questo libro può offrire, per concentrarmi su qualcosa di tanto attuale quanto drammatico che il libro affronta e che sembra presagio di questi tempi. È il capitolo “Il problema della fede” sulla visita alla cappella di Palazzo pubblico che Siena volle dedicare alla fine della Peste Nera, opera di Taddeo di Bartolo. Uno dei più lunghi di tutto il libro, chissà se per caso o intuizione.

Scrive Matar: “All’inizio del 1348 giunsero voci provenienti dalle steppe eurasiatiche, storie di orribili sofferenze e di morte, di interi distretti spariti in una manciata di giorni, di città cancellate. Le cronache erano incredibili quanto impossibili da ignorare. Parlavano di persone fino a un attimo prima in perfetta salute che morivano all’improvviso e inspiegabilmente. E il contagio si diffondeva rapidamente. Nessuno ne conosceva la causa e nessun rimedio si era rivelato efficace … quale che fosse la causa, una cosa sembrava certa: era la fine del tempo”. Per spiegare l’ira di Dio piombata sugli uomini, soprattutto nell’Europa cristiana, si andò alla ricerca di capri espiatori (ebrei, musulmani di Spagna, lebbrosi) e si diffuse il settarismo e il divario sociale tra le persone. La Peste da molti fu interpretata come flagello divino. “Meritammo è vero siffatto castigo – scrive Francesco Petrarca – ed anche maggiori: ma meritarono pure i nostri padri, e voglia Dio che a meritarlo non abbiano anche i nipoti”.

Cappella di Palazzo pubblico (Foto Luca Betti)

Una cosa è certa, da allora tutto cambiò, l’economia, la società, la cultura, le relazioni umane, l’idea della morte finì per essere sempre presente nella società come nell’arte che non fu più la stessa. A Siena la Peste era esplosa nel maggio dello stesso 1348 e in soli tre mesi circa ridusse la popolazione di meno della metà. Quanti con esattezza non si sa ma comunque “tanti, che ognuno credea che fusse finemondo” come scrive Agnolo di Tura detto il Grasso, autore di una cronaca coeva. Lui ci perse cinque figli. “Molti edifici rimasero vuoti e molte terre furono abbandonate all’incolto” scrive la professoressa Gabriella Piccini (“Siena e la peste del 1348” in “Storia di Siena”), raffigurando quasi gli effetti del Cattivo Governo descritti, pochi anni prima, a mo’ di monito da Ambrogio Lorenzetti in Palazzo Pubblico, anche lui caduto in quelle drammatiche circostanze.

Toccò allora a Taddeo di Bartolo, subentrato ai maestri della scuola senese scomparsi, a fine Peste tentare di risolvere per immagini il problema della fede, “di ogni fede” che per quanto possa essere “adamantina – scrive Matar – essa è uno spazio di dubbio”. E di mistero, aggiungiamo noi. Leggermente diverso, ad esempio, fu l’approccio alla Peste Nera nel mondo musulmano. “La reazione fu più deterministica – scrive Matar -. Nell’epidemia i musulmani vedevano una calamità non diversa da un uragano o un’alluvione, e come tale andava contrastata e sopportata. Non veniva da un Dio adirato, ma dal fato, che governa l’ordine delle cose. Non bisognava biasimare nessuno e, spesso genti di fedi diverse trovavano conforto e sollievo nella solidarietà”. Come racconta lo scrittore marocchino Ibn Battuta nei suoi “Viaggi” quando a Damasco vide affollarsi la Grande Moschea di fedeli che poi si allontanarono “marciando scalzi nella prima luce, in quell’ora in cui li cielo è illuminato ma ancora non si vede il sole, con in mano il Corano. A ogni strada si univano a loro altre persone, finché parve che l’intera città stesse marciando, gli ebrei con la loro Torah e i cristiani con il loro Vangelo, accompagnati da donne e bambini, e ognuno piangeva, implorava e supplicava Dio in nome dei propri libri e dei propri fedeli”.

foto Luca Betti

Dite voi se questa immagine, per forza e per contrasto, non richiama alla mente le parole del Pontefice Francesco I quando lo scorso 28 marzo, sotto la pioggia, in una piazza San Pietro deserta a causa delle misure per il contenimento del contagio dal Coronavirus, ha gridato al mondo “Siamo sulla stessa barca”, richiamandosi direttamente al Vangelo ma anche a uno dei pensieri più noti di Blaise Pascal. Colore della pelle, religione, condizioni sociali non contano di fronte alla Morte che cammina sulle nostre strade.

In attesa di trovare un approdo sicuro a questa crisi, l’unico augurio è che questo tempo non passi invano e certe letture ci aiutino a essere migliori e guardare con in modo diverso le città che ogni giorno abitiamo ma da tempo avevamo smesso di guardare. E a rispecchiarci negli occhi delle persone che incontriamo e riconoscerci; come accade ai protagonisti de “Il Paradiso”, il dipinto di Giovanni di Paolo, esposto al Metropolitan Museum of Art di News York e descritto da Matar giustamente nell’ultimo capitolo del volume, come una sorta di buono augurio. Facciamone tesoro per quando, di nuovo, potremo uscire di casa per vedere quello che ci circonda con occhi nuovi.

(Foto Luca Betti)

 

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