Foto Università di Pisa
Tempo lettura: 2 minuti

PISA – “Le domande per il suicidio assistito aumentano, ma le risposte istituzionali non seguono lo stesso ritmo”. Così Emanuela Turillazzi, prima firmataria di uno studio di Unipi sul suicidio assistito pubblicato su Frontiers in Psychiatry insieme a Naomi Iacoponi dell’Università di Pisa insieme a Donato Morena e Vittorio Fineschi della Sapienza.

La ricerca fotografa con precisione un sistema in cui le domande dei pazienti crescono, mentre le risposte fornite dal Servizio sanitario nazionale restano frammentarie e spesso contraddittorie.

Dal 2019, anno della storica sentenza con cui la Corte costituzionale ha indicato le condizioni in cui l’aiuto al suicidio può essere considerato non punibile, le richieste formali registrate in Italia sono 51. Nonostante ciò, il percorso non è affatto garantito: “molte aziende sanitarie – spiegano i firmatari dello studio – non applicano in modo uniforme le indicazioni della Consulta, accumulano ritardi o si rifiutano di procedere, costringendo i malati ad avviare ricorsi giudiziari. Il diritto riconosciuto dalla Corte, osservano gli autori, rimane spesso solo teorico”.

In questo quadro incerto, la Toscana è stata la prima regione ad aver approvato nel marzo 2025 una normativa organica che definisce tempi, procedure e responsabilità per la valutazione delle richieste. Una scelta subito contestata dal Governo, che ha impugnato la legge sostenendo che la materia deve essere regolata esclusivamente dal Parlamento. “Il risultato – evidenziano – è un conflitto istituzionale che aggiunge ulteriori incertezze a una questione già complessa”.

Lo studio ricostruisce anche i casi che hanno segnato la storia recente del fine vita in Italia. La vicenda di “Mario”, il primo paziente a ottenere il suicidio assistito nel nostro Paese, è diventata un punto di riferimento giudiziario, così come la storia di “Anna”, la prima persona a cui il trattamento è stato garantito con costi interamente coperti dal sistema pubblico. Altri casi, come quello di Davide Trentini, hanno esteso l’interpretazione dei criteri stabiliti dalla Consulta per i “trattamenti di sostegno vitale” includendo non solo i macchinari, ma anche interventi farmacologici o assistenziali indispensabili alla sopravvivenza. Una linea interpretativa che ha trovato conferme nelle successive sentenze della Corte costituzionale del 2024 e del 2025, in cui è stato chiarito che qualunque intervento la cui omissione porterebbe alla morte in tempi brevi deve essere considerato un trattamento vitale, anche se si tratta di procedure semplici e non tecnologiche.

Tutto questo avviene mentre l’opinione pubblica appare molto più avanti della politica. Secondo i dati Censis citati nello studio, il 74% degli italiani si dichiara favorevole all’eutanasia o al suicidio assistito, con percentuali ancora più alte tra i giovani e tra i laureati. A fronte di un consenso così ampio, il Paese continua però a non dotarsi di una legge nazionale che definisca con chiarezza doveri, tutele e modalità operative.

“La dipendenza dai trattamenti di sostegno vitale è un criterio troppo limitativo – sottolinea Turillazzi – La nostra idea è di superare questo vincolo e concentrarci su ciò che davvero conta: una patologia irreversibile, una sofferenza che il paziente ritiene intollerabile e una volontà libera, consapevole e direttamente espressa dalla persona. Sono questi, secondo noi, i requisiti fondamentali. Il resto – gli aspetti procedurali e le verifiche – spetta al sistema sanitario e ai comitati etici territoriali. Solo così è possibile ridurre le disuguaglianze territoriali e rimettere al centro diritti, autodeterminazione e dignità della persona”.