“Amor, ch’a nullo amato amar perdona / mi prese del costui piacer sì forte / che, come vedi, ancor non m’abbandona”. Cioè a dire che quando si è amati non si può che riamare. Tant’è che la drammatica vicenda di Paolo e Francesca mise in crisi anche Dante, la sua concezione stilnovistica del sentimento amoroso e ancor di più le sue certezze morali. Alla domanda di Virgilio (Che pense?) il Sommo ha difficoltà a rispondere, si trova inadeguato rispetto ai principi etici di riferimento. Dante non riesce a considerare peccato un amore tanto tragico quanto sublime. Colloca all’Inferno i due amanti più per convenzione dottrinale che per convinzione. Per il Poeta deve essere stato terribile dover ammettere come il sentimento da lui teorizzato nella Vita nova (“Amore e ‘l cor gentil sono una cosa”) potesse precipitare dall’elevazione spirituale alla morte.
Si inaugura così una riflessione letteraria sull’amore che troverà molteplici scritti per dirne grovigli e pene. Un Leopardi nemmeno ventenne e alle prese con Il primo amore capisce subito quale ‘battaglia’ debba affrontare un’anima innamorata (“oimè, se quest’è amor, com’ei travaglia!”) per proseguire affranto “Ahi come mal mi governasti, amore! / Perché seco dovea sì dolce affetto / recar tanto desio, tanto dolore?”.
E saranno ancora certi libri a notificarci ciò che magari faticheremmo ad ammettere. Ovverosia che la passione amorosa per essere tale deve essere ‘impossibile’, come si premurò di dimostrarci la cultura romantica. Pensiamo all’Ortis di Foscolo dove la forza del sentimento prevale sul calcolo e sulla ragione. O alla sensibilità tardo-romantica del Verga in Una peccatrice e Storia d’una capinera, storie di amori passionali e travolgenti che portano alla disperazione o alla morte. Per non dire delle esasperazioni (in verità fin troppo ‘estetiche’) di D’Annunzio che si ricavano dalle pagine del Trionfo della morte (aridai!), Il piacere, Il fuoco.
A tranquillizzare quanti si ritrovassero a vivere un amore autentico e ‘normale’ sono fortunatamente intervenuti diversi poeti del Novecento. Tra costoro Attilio Bertolucci, che per sua moglie scrisse versi di grande nitore anche formale: “Coglierò per te / l’ultima rosa del giardino, / la rosa bianca che fiorisce / nelle prime nebbie”. / Le avide api l’hanno visitata / sino a ieri, / ma è ancora così dolce / che fa tremare. / E’ un ritratto di te a trent’anni, / un po’ smemorata, come tu sarai allora”. Ebbene, quel fiore (e quell’amore) può essere davvero alla portata di tutti.

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