Già in precedenza abbiamo accennato alla letteratura di viaggio, tralasciando però di parlare di quei testi che raccontano un particolare modo di “andare” e raggiungere luoghi. Alludiamo cioè al pellegrinaggio, a un muoversi lento e finalizzato, che intende far uscire dal tempo dei giorni ordinari per ricongiungere con il sacro o, tanto meno, con un rinnovato senso dell’esistenza. Del resto è proprio dall’idea dell’incedere che deriva la raffigurazione del cammino umano nell’ordine fisico, psichico, spirituale. C’è infatti una visione dinamica dell’uomo che appartiene alle più diverse correnti di pensieri: lo storicismo, l’evoluzionismo, l’esistenzialismo. Si cammina per “divenire” persone singole e umanità.
Quanto al peregrinus è questo un termine antico derivante dalla locuzione per agros, poiché definisce individui che percorrono, appunto, un territorio esterno alla città. Essi, infatti, sono estranei alle comunità con cui vengono in contatto, dunque stranieri e strani che vengono da lontano e vanno altrove. Ed è a questo loro sguardo “altro” sulle cose e sulle persone incontrate che si devono interessanti diari di viaggio come quelli dei pellegrini alla volta di Santiago di Compostela. Si cominciò nell’anno Mille con il Liber sancti Jacobi per arrivare – attraverso i diari del monaco Hermann Künig (XV secolo), Domenico Laffi (1666), Nicola Albani (1743) – fino alle recenti e fin troppo spiritualiste pagine di Paulo Coelho e Shirley Mac Laine.
Ciò che comunque si percepisce da tali scritti è che la scelta del pellegrinaggio pone il soggetto nella condizione di colui che non si trova ad essere ma a farsi straniero, assumendo di questa condizione tutti i rischi e le fatiche in vista di un vantaggio interiore.
I libri di viaggio dei pellegrini descrivono luoghi, tappe intermedie, una meta (una fine) e soprattutto un fine. Un po’ come in quel poetico Viaggio celeste e terrestre di Simone Martini in cui Mario Luzi immagina il ritorno del pittore senese da Avignone a Siena. Un pellegrinaggio che ha come approdo una sorta di Siena/Gerusalemme e, dunque, il suo sofferto raggiungimento descritto in versi di grande tensione: “Ti perdo, ti rintraccio, / ti perdo ancora, mio luogo, / non arrivo a te”. Ma il pellegrino ha spirito tenace anche se la meta “vanisce / nel celeste / della sua distanza”, “si ritira nel suo nome, / s’interna nell’idea di sé, si brucia / nella propria essenza / e io con lei in equità, / perduto / alla sua e alla mia storia…”. Per concludere nell’imminenza del ricongiungimento: “Oh unica / suprema purità… Oh beatitudo”.

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