Abito blu d’ordinanza, giacca abbottonata come la bocca che in tutti questi anni è rimasta sempre cucita, camicia azzurro chiaro e cravatta in tono. È tornato in pubblico Giuseppe Mussari, l’ex presidente di banca Mps. Lo scatto pubblicato da La Nazione lo ritrae fuori dal Tribunale di Firenze, dove ha partecipato in veste di imputato all’udienza in Corte d’appello nel processo che lo ha già condannato a Siena in primo grado a 3 anni e 6 mesi per concorso in ostacolo alla vigilanza.

“Solo, triste e dimagrito”, titola il giornale e pare riecheggiare il “triste solitario y final” del grande Osvaldo Soriano. Ma se nel capolavoro del giornalista e scrittore argentino i protagonisti erano Stan Laurel, Charlie Chaplin e Philip Marlowe, qui c’è solamente un avvocato di provincia, finito per caso a fare il banchiere di una delle banche più antiche del mondo fino ad avvicinarsi a qualcosa di molto pericoloso. Una trama che ancora deve essere raccontata per intero e merita una penna arguta, come quella di Soriano.

A colpire, in realtà, non è tanto il suo abbigliamento, perfino banale per uno che deve rispondere davanti allo Stato di gravi reati, quanto il linguaggio del suo corpo. Le gambe sono leggermente protese in avanti e il busto quasi all’indietro come se più che portarlo lo trascinassero come peso morto; il braccio destro abbandonato sul fianco mentre il sinistro è impegnato a sorreggere la borsa in pelle chiara, da avvocato. Il suo camminare sembra meccanico, nessuna volontà pare guidarlo, solo un riflesso incondizionato. Il volto è scavato dagli anni, smagrito e lo sguardo è fisso, Sembra cercare un punto indefinito cui volgere l’attenzione, senza trovarlo. Non guarda nell’obiettivo né ha accanto a sé nessuno con cui parlare. Sta lì, si muove ma pare fermo, come una pellicola di un film rimasta inceppata. Solo i capelli boccoluti di un tempo ora ingrigiti sono leggermente mossi da qualche rara folata che soffia nel caldo della piana fiorentina. Pare un’anima dolente del Purgatorio.

In questi anni altre sue immagini erano circolate, l’ingresso in Tribunale a Siena dalla porta principale con il lancio di monetine (15 febbraio 2013), lo sguardo attonito e con il cappellino di lana calato in testa alla stazione di Firenze per andare a Salerno al processo per il Pastificio Amato (10 dicembre 2013), la smorfia di quando entra in Tribunale di Siena dal retro, in macchina con il suo avvocato, il muto cavaliere che ogni mattina se ne va da Aceto nelle Crete (8 gennaio 2014). Lontani anni luce i tempi in cui si faceva fotografare assiso in poltrona o con la felpa “1472”.

2007, dieci anni fa l’acquisto di Antonveneta e Mussari finì per essere il banchiere più celebrato del Paese; 2008, il suo Già del Menhir vince il Palio di luglio nell’Istrice e Mussari si prende gli onori della Piazza e diventa l’imperatore di Siena. Sono anni di potere reale che incide nella carne viva della società senese, di relazioni ad altissimi livelli e di favori, di prebende e di ambizioni. Seguiranno notorietà nazionale e il riconoscimento dei banchieri italiani che lo eleggono due volte presidente dell’Abi. Sembra un secolo fa ed è passato solo un decennio. Dieci anni che hanno sconvolto la Città, hanno visto crollare sotto il malgoverno l’Università prima, il Comune di Siena poi e a ruota Fondazione Mps, Sansedoni e via via tutti i tasselli del Sistema Siena. Con le macerie finite sotto i senesi, cui è stato chiesto di pagare i conti. Un’intera generazione di ricercatori che ha dovuto lasciare l’Ateneo non più in grado di finanziare nulla se non l’ordinario, servizi pubblici e a domanda individuale sempre più cari, manutenzioni ordinarie e straordinarie sempre più rarefatte, calo degli investimenti e fuga delle aziende con conseguenti perdite di posti e occasioni di lavoro. E non è ancora finita, considerando che peserà sui senesi risparmiatori accollarsi parte dell’imminente aumento di capitale di Mps con l’ingresso del Tesoro in Rocca Salimbeni e il prosciugamento di azioni e obbligazioni subordinate.

Certo, non di tutto è Mussari il responsabile e non è giusto imputare a lui colpe non sue. La borsa in pelle da avvocato dimostra del resto che ha intenzione di battersi per difendersi e che è finito il tempo del cazzeggio, quando andava in giro con uno zainetto nero in spalla, quasi a voler dire a tutti che lui i pesi se li buttava dietro mentre adesso li ha tutti lì, accanto a sé, come un’ossessione. Ma Mussari, volente o no, di quel tempo finisce per esserne il paradigma da cui ogni senese può declinare tutte le figure che vuole, ognuna con un grado di responsabilità diverso a seconda del ruolo e dei compiti. Drammatico capro espiatorio che da essere osannato, seguito e ammirato diviene punto di convergenza di strali, rancori e rabbia.

Nel vederlo camminare solo, triste e dimagrito viene in mente l’incontro di Dante Alighieri in Purgatorio con l’anima di Provenzano Salvani. “Colui che del cammin sì poco piglia / dinnanzi a me, Toscana sonò tutta / e ora a pena in Siena sen pispiglia”. Così vide per la prima volta il Sommo Poeta colui che fu condottiero vittorioso a Montaperti, sconfitto a Colle pochi anni dopo. Lo colloca in Purgatorio tra i superbi perché “fu presuntuoso a recar Siena tutta alle sue mani”. Ma Provenzano oltre ad essersi convertito in punto di morte, come è noto, fece atto di grande umiltà e per soccorrere un amico in difficoltà non ebbe vergogna a chiedere elemosina nel Campo. Per questo il Sommo Poeta concede a lui il I girone della Montagna del Purgatorio. A giudicare da quella foto, per Mussari il tempo della redenzione appare lontano. Il silenzio non sostituisce l’umiltà.

Ah, s’io fosse fuoco

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