di Rossano Pazzagli*

Avevo visto lo studio commissionato dal Consiglio Regionale all’Istituto regionale per la programmazione economica della Toscana (Irpet). Ora leggo su agenziaimpress.it  le dichiarazioni del presidente del Consiglio Eugenio Giani favorevole alla ulteriore riduzione del numero dei Comuni. Che dire? Ci sono ragioni di metodo e di sostanza per essere preoccupati, preoccupati per l’uguaglianza dei cittadini e per lo sviluppo dei territori.

Il primo commento è di carattere metodologico: per fare buone politiche bisognerebbe prima studiare e poi scegliere; invece qui siamo di fronte a una linea – quelle delle fusioni – assunta a priori per ragioni di opportunità politica e/o tecnico-finanziarie; solo successivamente si incarica un istituto di fare ricerca per avvalorare una scelta politica. Sorprende in questo (lo dico solo per inciso) la perdita di autonomia di un Istituto come l’Irpet, che vanta tradizioni culturali e scientifiche importanti.

Passando al merito, ma restando ancora su un piano generale e strategico, non capisco questo accanimento nei confronti dell’istituzione comunale, che ha rappresentato una linea lunga della storia italiana e che meriterebbe non di essere mortificata, ma rilanciata essenzialmente per due motivi:

  • salvaguardare la democrazia (partecipazione, uguaglianza, rappresentanza)
  • favorire lo sviluppo territoriale (coesione, riequilibrio città-campagna, sostenibilità)

Il direttore dell’ Irpet, Stefano Casini Benvenuti, ha ricordato che alla base del lavoro c’è la vecchia idea di «una Toscana che vive e lavora nei suoi sistemi locali». Bene, ma i sistemi locali hanno vissuto e possono funzionare proprio sulla forza delle comunità locali e sulla vitalità delle loro istituzioni di base, sul loro policentrismo e sulla loro capacità di collaborare e di fare rete, non sulla polarizzazione e la gerarchizzazione.

In Toscana i Comuni sono stati a lungo la base di una tradizione di buongoverno. Soprattutto dal medioevo all’età contemporanea essi hanno rappresentato il livello primario della democrazia, del senso civico e della partecipazione. Da qui l’organizzazione comunale del territorio si è diffusa nel corso dei secoli in Italia e in Europa. Un sovrano assoluto, Pietro Leopoldo, nel ‘700 ne ridusse drasticamente il numero; la stessa cosa fece il fascismo 150 anni dopo. Oggi la linea del Pd di ridurne drasticamente il numero tramite processi di fusione appare una forzatura fuori tempo e per certi versi antidemocratica. E si basa su dati sbagliati. Essa collocherebbe la nostra regione in una posizione di retroguardia anche rispetto all’art. 5 della Costituzione che tutela e promuove le autonomie locali. Dietro la chimera del risparmio (ma l’esperienza dimostra che i Comuni più grandi sono più costosi dei piccoli) sembra nascondersi in realtà una preoccupazione tutta politica, un nuovo dirigismo e un centralismo che dimentica l’interesse dei cittadini e dei territori, come già aveva sottolineato la Società dei Territorialisti con un appello firmato da numerosi intellettuali italiani.

Rossano Pazzagli

Questa linea della Regione Toscana, ora avvalorata a richiesta dall’Irpet, è anche un modo per nascondere che i problemi veri della politica italiana stanno soprattutto al centro dello Stato e delle Regioni, non nei territori e nei Comuni più piccoli. Questi sono in difficoltà? Ebbene, aiutiamoli a vivere, non a morire. La strategia della fusione si addice ancora meno alla Toscana, che non è – come si vorrebbe far credere – terra di piccoli municipi: tra le grandi regioni italiane è quella con il minor numero di comuni (280 contro 1500 della Lombardia, 1200 del Piemonte, 581 del Veneto) e quella nella quale la popolazione media per municipio è tra le più alte d’Italia: 13.200 abitanti per comune, il doppio della Lombardia, il triplo dell’Abruzzo o della Calabria.

La ricercatrice Irpet Sabrina Iommi nel suo lavoro afferma che la frammentazione genera diseconomie. A parte che ciò denota un criterio puramente economicistico nel valutare il tessuto istituzionale, è bene ricordare che l’accentramento può ridurre qualche diseconomia, ma solo scaricando i costi sui cittadini. Basterebbe investire sulle strutture comunali anziché depotenziarle, utilizzando gli incentivi che la legge mette teoricamente a disposizione per rafforzare i comuni invece che per cancellarli.

Bisognerebbe usare vincoli e incentivi – dice la dott.ssa Iommi autrice della ricerca. Io credo che bisognerebbe favorire investimenti territoriali e autonomia locale. Così si promuoverebbe la coesione salvaguardando la democrazia e lo sviluppo economico sarebbe una conseguenza, non una premessa. Lo studio Irpet insiste dunque sul tema degli incentivi ai Comuni che decidono di fondersi. In effetti, questa è la chimera più utilizzata per convincere amministratori locali, imprese e cittadini, tanto da prefigurare una forzatura economica di una questione democratica. Eppure anche quando i finanziamenti arrivano (ma la legge li lega giustamente alle disponibilità di bilancio) essi vanno in gran parte a coprire i maggiori costi della riorganizzazione (ristrutturazione uffici, formazione, informatizzazione, indennità degli organi, ecc.), come dimostrano alcuni casi anche nel resto d’Italia – esempio il nuovo comune di Valsamoggia, in Emilia. Ma anche quando arrivassero dovessero essere ben spesi, ciò sarebbe solo per pochi anni, poi basta. Al massimo risolverebbero qualche problema subito, mentre il danno della perdita di autonomia resterebbe per sempre, in modo irreversibile.

La fusione, quando non è un autentico processo autonomo che parte dal basso, non è qualcosa di più, ma è qualcosa di meno. Essa crea generalmente un Comune più grande, più costoso, più lontano dalla gente e meno trasparente. Per un territorio perdere il Comune significa perdere importanza, rappresentanza, autonomia. Le campagne e le zone periferiche resterebbero marginalizzate, con danni per l’agricoltura, il turismo e i servizi sociali. Il presidio e la manutenzione del territorio, molto legati alla prossimità istituzionale, peggiorerebbero inevitabilmente, aumentando i costi sociali. I processi di fusione proposti dall’alto determinano inoltre un aumento dei campanilismi e una perdita di protagonismo e di partecipazione, mentre il principio del Comune, fin dalla sua nascita, è quello che i cittadini di una comunità si autogovernano attraverso i loro rappresentanti; e nella Costituzione Italiana la democrazia comunale diventa la base della democrazia nazionale.

Consideriamo poi che i territori e i Comuni, specialmente nelle aree interne, rurali e montane, sono stati ingiustamente marginalizzati dal processo di sviluppo dell’età contemporanea e quindi richiedono oggi di essere rimessi al centro delle politiche, come dimostra a livello nazionale anche la Strategia per le aree interne (SNAI) lanciata qualche anno fa da Fabrizio Barca. Se questi sono in difficoltà, aiutiamoli a vivere, non a morire. Soprattutto in una fase storica come quella che stiamo vivendo, caratterizzata dal progressivo allontanamento delle scelte dai luoghi di vita e dalla prevalenza dei poteri economico-finanziari sulle modalità democratiche di governance, i Comuni, intesi come comunità reali degli abitanti e dei patrimoni territoriali che costituiscono i beni comuni, devono essere considerati come la struttura di base dello Stato, l’ossatura viva della democrazia. I Comuni più piccoli, in particolare,  debbono essere tutelati e considerati come gli ambiti di base e strategici per il futuro dei nuovi equilibri socioeconomici dell’intero paese. Le convenzioni, le unioni intercomunali, i consorzi, gli accordi di programma, ci sono tanti strumenti previsti dalla normativa per adottare forme di collaborazione e di gestione associata di funzioni senza perdere autonomia e rappresentanza. Seguiamo quelle, lasciando da parte fusioni antistoriche e antidemocratiche. ‘Autonomi e insieme’ dovrebbe essere il motto per procedere verso l’esercizio associato di molte funzioni, evitando la cancellazione dei capoluoghi comunali e salvaguardando il patrimonio di cultura, di valori sociali, di democrazia e di economia contenuti nei loro territori. L’autonomia comunale, l’identità, la cultura, la bellezza e la qualità della vita di gran parte del territorio italiano non sono solo temi da intellettuali o da anime belle. Esse sono anche vere e durature risorse economiche e fulcro della civiltà di un Paese.

* Rossano Pazzagli, toscano, docente di storia moderna e di storia del territorio e dell’ambiente all’Università del Molise, dirige il Centro di Ricerca per le Aree Interne e gli Appennini (ArIA), fa parte della Società dei Territorialisti.

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