Questa volta non vorremmo parlare delle modalità con cui la letteratura accede alle aule scolastiche, ma di come la scuola sia entrata nella letteratura. Va subito detto che su di noi cresciuti a Pinocchio, Gian Burrasca e libro Cuore, la narrativa d’ambientazione scolastica esercitò la sua prima pedagogica lezione facendoci sì divertire, ma iniettando anche un sottile ricatto morale. Nel senso che pure a noi sarebbe piaciuto mettere la pece sotto le chiappe del vicino di banco, emulare le infrazioni del burattino collodiano o solidarizzare con il mitico casinista Franti. Però, fatta la risatina, a prevalere dovevano essere sentimenti e coscienza tali da formarci come cittadini rispettosi delle autorità (genitoriali e pubbliche), pronti al sacrificio (se non addirittura all’eroismo), forti nelle sventure, compassionevoli verso il prossimo. Così che fosse chiara la funzione educativa della scuola e il tipo di cittadini che essa andava a crescere. Inutile negare che il modello pedagogico del maestro Perboni segnò generazioni intere di italiani. Peraltro – merita ricordarlo nell’imminenza del centocinquantesimo dell’unità d’Italia – De Amicis, dopo 25 anni da quella sofferta unificazione, intese produrre un’opera letteraria che attraverso certi ideali, sentimenti, messaggi e linguaggi, contribuisse ad una reale unificazione del Paese. E indubbiamente vi riuscì, mirando dritto al… cuore.
Altri (cattivi?) maestri ci avrebbero poi accompagnato nella vita. Dal cechoviano Platonov che annega nell’alcol la sua inadeguatezza nel saper corrispondere amore, a quel triste Maestro di Vigevano (efficace quadretto al tempo del boom economico) che, nato educatore “per missione”, diviene un furfante quanto incapace padroncino, per tornare nel ruolo (modesto ma a lui più congeniale) di maestro. L’insegnante più terribile in cui ci siamo imbattuti resta comunque il professore che nella Leçon di Eugène Ionesco anziché trasmettere conoscenze (e certezze) si fa, al contrario, soggetto disorientante. Usa le sue nozioni in modo assurdo, ambiguo, mostruoso, fino ad annientare (uccidere) l’allieva. Una sagace metafora per denunciare un sistema sociale e i ruoli che esso assegna: credibili nella forma, ma snaturati nella sostanza. Davvero una lezione: ad ammonire che il sapere può anche deviare in aggressivo esercizio di potere compiuto attraverso la mistificazione del linguaggio. Se tale è il rischio che corriamo, a-ridateci subito il maestro Perboni (nomen omen) con il suo buonismo odoroso di stantio come i salottini di una piccola e grama borghesia.

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