PresentazioneCinquanta anni fa lo storico dell’arte Giovanni Previtali pubblicava uno studio rimasto celebre su “La fortuna dei primitivi”, intendendo per ‘primitivi’ tutti quei maestri attivi fra la seconda metà del ‘200 e i primi del ‘400: grosso modo fra la rivoluzione di Cimabue e Giotto e quella ‘rinascimentale’ di Masaccio. Previtali individuava così un preciso fenomeno del collezionismo sviluppatosi tra ‘700 e ‘800, quando i cosiddetti “fondi oro” dilagarono nelle raccolte di tutta Europa, provenienti per lo più da chiese e monasteri e dalle case della nobiltà fiorentina e senese. Riparte da qui, colmando una lacuna di mezzo secolo, la bella mostra aperta da oggi fino all’8 dicembre alla Galleria dell’Accademia di Firenze: “La fortuna dei Primitivi. Tesori d’arte dalle collezioni italiane fra Sette e Ottocento”.

L’esposizione In mostra 90 dipinti su tavola e due su tela (fra cui una delle prime opere di Mantegna), 12 sculture, 10 oggetti di arte suntuaria in oro e avorio e 24 Codici miniati (custoditi nella penombra del primo piano). Opere di Arnolfo di Cambio, Taddeo Gaddi, Bernardo Daddi, Lippo Memmi, Ambrogio Lorenzetti, Beato Angelico, Andrea Mantegna, Cosmè Tura e un probabile Giovanni Bellini. Solo per fare i nomi dei più conosciuti. I musei da cui provengono sono in gran parte italiani ma non mancano prestiti importanti dal Louvre, dalla National Gallery di Londra e da quella di New York, dal Lindenau Museum di Altenburg e dal Getty Museum di Los Angeles. Ma al di là dello splendore delle opere che espone, la mostra vuole mettere a fuoco il collezionismo dell’epoca, con le sue motivazioni e i suoi protagonisti: lo stesso allestimento si dipana infatti come una serie di stanze in cui dipinti, sculture e oggetti si raccolgono intorno al ritratto di colui che li ha scelti e acquistati. Come Teodoro Correr, Stefano Borgia o il cardinale Joseph Fesch, che raccolse più di 16mila dipinti. Il bacino di approvvigionamento era l’Italia, terra di conquista divisa in stati e staterelli. In Toscana, in particolare, le Soppressioni dei Conventi, avvenute già con Pietro Leopoldo di Lorena e ripetute successivamente con Napoleone, “liberarono” centinaia di opere, rendendole disponibili sul mercato antiquario.

Il valore della mostra Ciò che resta da capire – e che Previtali cominciò a indagare – è il perché di questo interesse improvviso dopo secoli di abbandono. Tavole che ancora nel ‘600 venivano riutilizzate come ante per le finestre o distese per farci asciugare sopra la frutta nelle case di campagna, a partire dal ‘700 diventano reperti preziosi da collezionare. Appena usciti dall’Illuminismo e con il neoclassico Antonio Canova come artista di riferimento, intellettuali, eruditi, abati, nobili e borghesi cominciano ad acquistare insieme alle statue romane anche “fondi oro”, avori e codici miniati frutto di un gusto davvero molto lontano da loro. A questa passione non sfuggì neppure Firenze, con antiquari come Angelo Maria Bandini, Ottavio Gigli, Riccardo Riccardi e Giuseppe Stiozzi Ridolfi. Non solo, grazie al direttore delle Gallerie Granducali Giuseppe Bencivenni Pelli e al suo antiquario Luigi Lanzi, già nel 1780 gli Uffizi potevano vantare una “Camera delle pitture antiche” i cui maestri erano stati scelti sulla scorta delle “Vite” del Vasari.

Info La mostra, inserita nel cartellone “Un anno ad arte” del Polo Museale Fiorentino, è diretta da Angelo Tartuferi ed è stata curata con Gianluca Tormen e Ada Labriola. L’allestimento di Guicciardini e Magni è stato realizzato da Opera Laboratori Fiorentini-Civita Group. Catalogo Giunti e sostegno fondamentale dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze. Altre info su www.unannoadarte.it.

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