Non si è mai fatta piena luce sulla disgrazia del povero Di Bartolomei, accaduta vent’anni fa. Per fortuna, mi verrebbe da aggiungere. Un suicidio è materia sempre difficile da trattare; soprattutto, entrano in ballo percorsi psicologici che nessuno è in grado né di valutare né tantomeno di giudicare… Per Di Bartolomei si parlò di depressione, di debiti di gioco e altro. «Il bene è spesso sepolto con le loro ossa; e così sia di Cesare» , fa dire Shakespeare a Marco Antonio, nella famosa orazione. Valga lo stesso, dunque, per questo ottimo calciatore.

foto6Varrà la pena ricordarlo in quella stagione felicissima per lui, e per i tifosi della “Maggica”: correva l’anno 1982-83, e in Italia si giocava “il campionato più bello del mondo”. Così bello (e ricco) che persino il magno Zico accettò l’Udinese pur di farne parte. Fatte le dovute proporzioni, è come se oggi il Chievo, o l’Atalanta, ingaggiassero uno Wayne Rooney. Fu una lotta a due, tra la Juve di Platini e la Roma “zonarola” del Barone Liedholm. La Juve aveva più classe. La Roma aveva il vento della storia che le soffiava sulle vele. E vinse. Paulo Roberto Falcao ne era il faro, anche se non fu quella la sua stagione migliore… Furono decisivi, invece, la mezzala Ancelotti, il centravanti Pruzzo e il fenomenale Bruno Conti. Soprattutto, fu decisivo lo stopper Pietro Vierchowod: che permise a Di Bartolomei di giostrare da battitore libero (!?) pur non avendone né la qualità, né le caratteristiche.

Il Capitano giocava da classico “uomo in più”, facendosi sentire sui calci da fermo, che erano la specialità della casa…… In realtà, la bravura mostruosa di Vierchowod (ventitreenne) chiuse la difesa a doppia mandata, e consentì spazi di libertà a tutti, compreso Sebastiano Nela, che testualmente giocava da terzino, ma era un’ala sinistra fatta e finita. Anzi, era forse il miglior esterno che avevamo in quegli anni (insieme a Cabrini, ovvio). Ricordiamo con grande tristezza la vicenda umana di questo campione giustamente venerato dai tifosi della Roma. Il suo giro di campo in uno stadio Olimpico pieno di bandiere giallorosse è tra le immagini più potenti di quegli anni ormai lontani. Era il giorno dello scudetto. Mi rimase impresso il suo sorriso. Un sorriso tirato e un po’ amaro. Il sorriso di un uomo che a sorridere era poco abituato, evidentemente. Si uccise il 30 maggio del 94. A dieci anni esatti da quel fatidico Roma-Liverpool che fu uno spartiacque decisivo per una tifoseria: ma lo fu anche per molti calciatori, per un club (l’A S Roma), e forse per una città intera. Scelse quel giorno simbolico, forse, per ribadire al mondo il legame indissolubile con una maglia, una storia ed una città. Ma questi sono discorsi un po’ melodrammatici e forse neanche troppo rispettosi della memoria di un campione che fu invece sobrio e concreto. E non fu mai né teatrale, né eccessivo. Fu invece un Capitano degno, ed un campione con il quale era facile immedesimarsi. Uno del quale attaccavi il poster nella cameretta sapendo che non avrebbe sfigurato. E al quale urlare : “Agostì… mettete a fumà la pipa, che te famo presidente della Repubblica”.

 

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