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VIAREGGIO – Nel settore A4 dell’Adelaide Oval stadium tutti i biglietti del pacchetto super vip “The Pharaoh’s platinum experience” sono già esauriti per la recita del 5 febbraio 2026.

Prevedono il benvenuto con una coppa di champagne, una cena seduta di tre portate, bevande gratis per due ore, cadeaux, programmi di sala personalizzati e, ovviamente, l’Aida di Verdi, con le trionfali scene di Zeffirelli, che l’Arena di Verona per la prima volta nella sua storia porta in tournée in Australia.

Il biglietto, per le prime dieci file centrali, costa 1.199,90 dollari australiani, circa 672 euro al cambio attuale. Ce ne sono ancora disponibili, ma non così tanti: da settimane è iniziata la corsa ad accaparrarsi i posti migliori per questo evento eccezionale.

Due recite di Aida con alcuni fra i migliori cantanti del mondo, diretti dal maestro Nicola Luisotti, toscano, anzi versiliese. Uomo delle terre di Puccini, ma con una grande esperienza anche nel repertorio verdiano.

Considerato fra i più grandi interpreti del repertorio italiano, Luisotti – chiamato alla musica da bambino: «se non avessi fatto il musicista, avrei fatto sicuramente il musicista» – è protagonista di una stagione importante nel 2026: il primo tour australiano dell’Arena, appunto, e il centenario della Turandot di Puccini che sarà festeggiato in tutto il mondo ma, in particolar modo, alla Scala a Milano, dove l’opera debuttò – postuma e incompleta – a un anno e mezzo dalla morte del compositore.

Primo impegno del 2026, dunque, per il direttore toscano – da qualche anno principale direttore ospite del Teatro Real di Madrid – sarà l’Aida australiana.

Un’opera titanica (in tutti i sensi), con 700 persone coinvolte, 28 container in partenza dall’Italia, fra scene, costumi e attrezzeria varia, due cast. Il minimo indispensabile per l’enorme stadio di Adelaide, 50mila posti, casa ufficiale del cricket e del football australiano, prestato anche alla musica, ma mai all’opera italiana in grande stile. Il primo artista che qui si esibì, quasi mezzo secolo fa, fu David Bowie. Poi hanno osato i Rolling Stones, Paul McCartney, Adele. E ora arrivano – in senso figurato – Verdi, Zeffirelli e l’opera lirica italiana, patrimonio immateriale dell’umanità.

A disposizione di tutti: di chi può pagare i pacchetti vip dai nomi suggestivi – per circa 1000 dollari australiani si può anche vivere “The Sacred Temple Experience” (qualche coccola in meno di quelli del pacchetto da faraone) – e di chi si accontenterà di vedere i cantanti da lontano, pagando però solo 50 dollari australiani.

In aprile, poi, Luisotti dovrà essere, per tutto il mese – dieci recite, dal 1° al 29 – a Milano, alla Scala sul podio che nel 1926, nelle stesse settimane fu di Arturo Toscanini, amico-nemico di Puccini, ma l’unico al quale, evidentemente, il Maestro avrebbe consentito di dirigere la sua Turandot irrisolta.

Maestro Luisotti, la Scala ha annunciato per il 2026 le celebrazioni per il centenario di Turandot. Lei ad aprile del prossimo anno sarà sul podio, come cento anni fa – il 25 aprile 1926 – ci fu Toscanini. Come nasce questa proposta? Fra l’altro già nel 2010, il Metropolitan di New York la volle sul podio de “La fanciulla del West” a cento anni esatti dal debutto assoluto – a New York, il 10 dicembre 1910 – diretto, anche in quel caso, da Arturo Toscanini. Non è che i teatri, oggi, la considerano il nuovo Toscanini?

«No, davvero. Nessuno può essere quello che non è. Io sono Nicola Luisotti, Arturo Toscanini è stato Arturo Toscanini. Lui è leggenda, io sono un direttore d’orchestra e questa è una grande differenza».

Non può essere un caso, però, che per due centenari importanti di opere di Puccini, venga scelto lo stesso direttore.

«Probabilmente i due eventi sono collegati fra di loro. Chi ha pensato di invitarmi a dirigere il centenario di Turandot credo che abbia visto chi nel mondo avesse già diretto altri centenari pucciniani. Evidentemente quello de “La Fanciulla del West” aveva funzionato abbastanza bene, con la produzione e regia di Giancarlo Del Monaco (figlio del tenore Mario Del Monaco, considerato uno dei maggiori registi della sua generazione, nda).

Questa produzione (che segnò anche il debutto di Giancarlo Del Monaco al Met, nda.), aveva già avuto un enorme successo con Placido Domingo, quando fu allestita per la prima volta nel 1991. Mi ricordo bene quando me la propose il Sovrintendente del teatro, Peter Gelb, che mi aveva già voluto a New York per La Bohème, nel 2008. Mi disse: “Nicola, ti piacerebbe dirigere per noi La fanciulla del West del centenario?”. Risposi che l’avrei fatta molto volentieri, ma con altrettanta sincerità dissi a Peter: “Non so se sono il direttore giusto”. Mi rassicurò subito Gelb: “Ma come? Sei la persona perfetta, Puccini come te non lo fa nessuno”. Non ci ho mai creduto, ma feci questa produzione di Fanciulla e mi piacque molto».

Piacque molto anche a tanti altri. A New York, infatti, le venne assegnato anche un premio prestigioso, in concomitanza di questo centenario.

«Proprio al Met la Fondazione Festival Puccini a di Torre del Lago mi consegnò il premio Puccini: arrivò dalla Toscana una delegazione del festival e dopo il debutto della produzione del centenario fu organizzata una festa per questa premiazione. Ho ricordi meravigliosi di quella Fanciulla che è un’opera molto difficile da dirigere, soprattutto al Met, in quel Met, l’attuale Lincoln center di New York. La prima volta in assoluto, infatti, La Fanciulla venne rappresentata a New York ma in un altro teatro. La prima sede del Metropolitan era tra la 39ª e la 40ª Strada a Broadway, un teatro all’italiana (abbattuto nel 1967 perché non protetto come monumento nazionale, nda).

Invece l’attuale Metropolitan Opera House – il Lincoln center (sulla 66a strada) – è un teatro diverso: ha un palcoscenico enorme, con una buca dell’orchestra di 20 metri, per cui non è facile dirigere un’opera come Fanciulla che richiede una recitazione da parte degli solisti e del coro come se fossero attori di un film.

Dobbiamo ricordarci che quando agli inizi del Novecento Puccini scriveva a Massimo Del Carlo, suo cognato, sindaco di Lucca, per chiedergli di allestire “La Fanciulla del West” al teatro del Giglio, il cognato (marito di Otilia Puccini) gli rispondeva: “Ma come faccio? Pensa solo alla scena del terzo atto, quando entrano dieci cavalli!”.

Comunque, a New York, quando proponemmo per il centenario la produzione di Giancarlo di cavalli ne mandammo uno solo in scena».

E così, da centenario a centenario, si arriva alla Turandot del 2026. Che cosa si dobbiamo aspettare?

«Anche in questo caso, la Scala ha scelto di portare in scena una produzione non nuova. Si tratta di un allestimento di Davide Livermore che ha avuto molto successo, creato per il centenario della morte del compositore lucchese, nel 2024 (la favola trasposta nella Pechino degli anni ’40 e attualizzata con l’uso di alta tecnologia, nda)».

Senta maestro, alla prima di Turandot, andata in scena postuma, Toscanini smise di dirigere dove Puccini aveva lasciato: alla morte di Liù, la schiava della principessa di gelo. Lei ha deciso come si comporterà?

«Molte decisioni sono ancora da prendere. Già mi si chiede, appunto, se mi fermerò, come Toscanini, alla morte di Liù, oppure se proseguiremo con il finale. Sono tutte decisioni da prendere con il teatro, ne stiamo parlando, anche se al momento non abbiamo ancora deciso che cosa faremo nella recita del centenario. Che, però, non andrà in scena proprio il 25 aprile 2026.

La prima assoluta andò in scena il 25 aprile 1926, ma noi credo che la celebreremo la vigilia, il 24 aprile: il 25 aprile, infatti, non è previsto spettacolo forse perché per l’Italia repubblicana è la Festa della Liberazione dal nazi-fascismo, una ricorrenza che ancora non esisteva 18 anni prima, quando Turandot debuttò alla Scala.

Credo, comunque, che Lucca – città natale del Maestro – abbia in programma un evento, invece, proprio il 25 aprile 2026. E anche questo mi sembra degno di rilievo.

In senso più generale, credo che sia importante celebrare Turandot, oltre il centenario della prima, perché l’incompiuta di Puccini è l’ultima vera grande opera di repertorio, in Italia e nel mondo».

Turandot, dunque, è la fine di un’epoca? Di una tradizione musicale?

«Con Turandot si segna la fine di un’epoca, la fine delle opere di repertorio. Dopo quella abbiamo altre opere, anche straordinarie, ma non c’è più il concetto più di “opera di repertorio”. Infatti la Scala dedica a questo capolavoro un mese intero: debutto il 1° aprile, ultima recita il 29 aprile; due cast: per la prima e la recita del centenario (il 24), oltre che alcune altre repliche, il ruolo di Turandot è affidato al soprano Anna Pirozzi; Cafal, principe ignoto, sarà il tenore Roberto Alagna, Liù Mariangela Sicilia, Timur a Riccardo Zanellato; in questi ruoli, poi, si alterneranno Ewa Plonka (Turandot), Angelo Villari (Calaf), Selene Zanetti (Liù) e Adolfo Corrado (Timur)».

Spesso si parla di Turandot come l’opera modernissima di Puccini, dove si echeggiano stili musicali contemporanei. Lei che la studia da anni, che cosa ne pensa?

«Sicuramente Puccini stava subendo un processo evolutivo personale, basti pensare all’uso della “politonalità” che non aveva mai usato fino a quel momento. C’è un elemento innovativo nella partitura. Però, Puccini era solito cambiare molto, rimaneggiare tante volte le sue opere negli anni. Pensiamo a cosa è successo con Madama Butterfly, con La Bohème, anche con La fanciulla del West. Di ogni opera, il maestro ha sempre realizzato diverse versioni.

Esattamente che cosa volesse Puccini di questa Turandot non ci è chiaro. Ad esempio, ci troviamo di fronte a questa banda interna di ottoni, anzi più correttamente si deve dire “fanfara” perché non ci sono legni nella banda interna e che suonano spesso congiuntamente con l’orchestra. Cosa, dunque, volesse ottenere Puccini con questi effetti non è molto chiaro, perché non ha avuto modo di ri-elaborare l’opera. Ma sicuramente, ci avrebbe messo e rimesso le mani come ha fatto con le altre. Avrebbe rimesso le mani con questo finale così incerto: di fatto, dopo la morte di Liù, sembra concludersi l’opera. Tanto che quando andiamo al finale di Alfano – che poi è in parte anche di Toscanini, intervenuto non so se sull’orchestrazione, ma di sicuro con tagli importanti – è difficile capire se e come Puccini intendesse andare avanti».

Il dubbio sul finale sembra destinato a non sciogliersi.

«Mi pongo domande e osservo in base a quello che il compositore scrive. Timur (padre di Calaf, principe ignoto), errante in compagnia della schiava Liù, dice alla ragazza morta: “Sorgi, è l’alba”. Quando si esprime così significa che in quel momento sta avvenendo qualche cosa. Invece l’alba, spunta di nuovo successivamente, al momento del duetto fra Calaf e Turandot, quando la principessa potrebbe svelare il nome dello straniero e mandarlo a morte come gli altri pretendenti di sangue blu.

Qualche cosa alla fine Puccini avrebbe fatto per far tornare la narrazione se, alla fine, fosse vissuto ancora dieci anni. Avrebbe sicuramente avuto ancora bisogno di qualche anno per la versione definitiva: prima di provarla e metterla in scena com’era nata, poi facendo cambiamenti in una seconda versione magari nel 1926, poi per riproporre un’altra versione ancora nel 1928 e magari quella definitiva a Londra, si fa per dire, nel 1930.

Quello sarebbe stato il percorso naturale del compositore e forse, allora, avremmo ascoltato la Turandot di Puccini. Quella che ascoltiamo oggi è la Turandot “incompiuta”».

Quando parla di incompiuta non si riferisce solo al finale.

«Esatto: incompiuta lo dico in tutti i sensi. Turandot è incompiuta non perché finisce alla morte di Liù, ma perché conoscendo le abitudini del compositore avrebbe messo mano non solo al finale, ma a tutta l’opera, inclusa l’orchestrazione, alcuni passaggi che non gli sarebbero (più) piaciuti. E poi avremmo avuto un finale, magari Calaf avrebbe scacciato dal regno Turandot e suo padre, chi può saperlo? D’altronde con la morte di Liù, si era distaccato moltissimo dal testo originale di Gozzi (l’autore settecentesco della fiaba che ispirò Puccini)».

Qual è la difficoltà di un direttore d’orchestra, con la sensibilità di oggi, a dirigere un’opera come Turandot?

«Oggi, qualunque opera si diriga, ci sono difficoltà. Non pongo mai le difficoltà che può presentare un’opera da dirigere: mi preoccupo del risultato. Penso a quale effetto il compositore avrebbe voluto ottenere in termini di sonorità. Dobbiamo anche pensare che nelle epoche dei grandi compositori i teatri come sono oggi non esistevano: non c’era, per esempio, la buca dell’orchestra come la conosciamo oggi, per cui certe sonorità, certe dinamiche riflettono anche il gusto e le condizioni dell’epoca in cui sono state scritte le composizioni.

Oggi si deve fare i conti con teatri con caratteristiche molto diverse tra loro, per cui, molte volte, i cantanti sono troppo distanti dal muro dell’orchestra. Quindi dobbiamo sempre bilanciare il suono per fare in modo che si senta sì la musica del compositore ma che si sentano anche i cantanti».

Maestro, con la Turandot del centenario lei torna alla Scala dove ha diretto più e più volte. Si ricorda il suo debutto?

«Io ho un rapporto con la Scala che viene molto da lontano perché vinsi un’audizione per maestri collaboratori nel 1988 e fui chiamato, da maestro collaboratore, appunto, a partecipare alla produzione di un’opera diretta dal maestro Riccardo Muti: il Don Giovanni (Mozart). Andò in scena nel 1989: di questa esperienza conservo un ricordo speciale.

Mi ricordo che entrai in questo teatro e mi sembrava un sogno. Ero un ragazzo appassionato di musica classica ed entrare in quel teatro non so neanche spiegare la sensazione che mi suscitò. Fu come varcare una soglia sacra. Oggi ricordo quel momento in modo molto poetico, ma all’epoca ero terrorizzato. Anche terrorizzato di stare vicino a Riccardo Muti che vedevo come un Dio. E forse era una giusta considerazione, visto che ancora oggi Muti rimane sicuramente un faro per l’opera italiana, non solo un grande musicista, di talento, ma anche di grande serietà.

Mi ricordo bene come lavorava con i cantanti, con l’orchestra. Grazie a lui ho avuto un grande imprinting».

E questo è stato solo l’inizio di un lungo rapporto.

«Certo. Poi sono tornato come maestro collaboratore. Mi vennero offerti contratti molto lunghi, ma sentii che la mia vocazione era un’altra: volevo tornare alla Scala come direttore d’orchestra e così di fatto fu. L’ultima volta che lavorai alla Scala come maestro collaboratore fu il 1990. E mi dissi: “Se potrò tornare alla Scala, la prossima volta dovrà essere sul podio”. E così fu. Nel 2002 diressi Oberto, conte di San Bonifacio (la prima opera di Verdi) non al Piermarini perché la Scala era in restauro, ma all’Arcimboldi dove il teatro si era momentaneamente trasferito. Diressi l’opera con l’orchestra Cherubini, che poi è diventata l’orchestra simbolo di Riccardo Muti.

Anche di questa esperienza ho bellissimi ricordi con Leyla Gencer (il grande soprano turco, scomparso nel 2008, alla guida dell’Accademia della Scala per una decina di anni, nda) e con i ragazzi dell’Accademia, molti dei quali hanno fatto una grande carriera.

Quella è stata la mia prima volta da direttore d’orchestra per la Scala. Poi, sono tornato nel 2011 con l’Attila di Verdi, altra opera giovanile del compositore di Busseto.

Da lì è nata una collaborazione anche con la Filarmonica della Scala, oltre che con il teatro. Una collaborazione che ancora oggi dura e che spero continui nel futuro».

A proposito di collaborazioni importanti: proprio di recente l’Arena di Verona ha annunciato la prima tournée in Australia dove verrà allestita l’Aida di Verdi. E ha scelto lei, come direttore d’orchestra. Perché pensa che sia stato scelto Nicola Luisotti per un evento così importante?

«Io ho diretto all’Arena di Verona l’ultima volta nel 2002 un Trovatore (Verdi). E da allora non ho più diretto all’Arena per un’unica ragione: non è un mistero che a me non piaccia dirigere all’aperto. Ho diretto all’aperto varie volte, anche in concerti: a San Francisco, quando ero direttore musicale dell’Opera house, ho diretto anche con i microfoni, ad esempio il concerto annuale al Golden Gate Park.

Tuttavia, per quanto possibile, ho sempre cercato di evitare la musica all’aperto perché soprattutto alcuni compositori – Puccini, Verdi, ma in fondo tutti gli autori – hanno bisogno di una sala chiusa, hanno bisogno di un’acustica straordinaria per poter riprodurre i “colori” della loro musica. Io sono appassionato di colori orchestrali e colori orchestrali-corali, con i cantanti. Sono appassionato dei “pianissimo” e certi risultati all’aperto, purtroppo, non si possono ottenere perché manca l’atmosfera, mancano le condizioni. Allora per questo, in tutti questi anni ho declinato tantissimi inviti che l’Arena di Verona ha avuto la bontà di rivolgermi, per farmi tornare, proponendomi cast e produzioni straordinari. Di questo sono e sono stato veramente grato.

Poi è venuta questa idea dell’Arena di Verona che, per la prima volta nella storia andava in Australia e lì non ho mai diretto, ho accettato di partecipare a questo grande evento, di unirmi a questo grande teatro, che va dall’altro capo del mondo. Si tratta di un’operazione del tutto inedita, un debutto universale. E dopo così tanti anni, quasi un quarto di secolo, dall’ultima volta che ho diretto all’Arena, mi sono detto: perché non partecipare a questa tournée, con tanti amici e colleghi straordinari? Parteciperanno i tenori Jonas Kaufmann e Brian Jade, i soprani Angel Blue e Maria José Siri, i mezzosoprano Elina Garanča e Agnieszka Rehlis e tanti altri grandissimi artisti con cui ho lavorato. E così ho accettato questa produzione».

L’Aida in Australia all’Adelaide Oval, stadio da circa 50mila spettatori, costruito nel 1871, lo stesso anno in cui Verdi debuttava con Aida a Il Cairo. Una sfida importante per lei, per l’Arena e per l’opera italiana dichiarata dall’Unesco patrimonio immateriale dell’umanità.

«Ho accettato con particolare piacere di dirigere questa Aida nell’allestimento straordinario di Franco Zeffirelli in 5 e 6 febbraio 2026. Con Franco ci siamo conosciuti e frequentati. Abbiamo condiviso il quarantesimo anniversario della sua Bohème al Metropolitan di New York: eravamo insieme in quella produzione, è stata davvero una grande esperienza. Insieme abbiamo fatto anche Il Trovatore all’Arena, Pagliacci di Leoncavallo a Los Angeles. Zeffirelli è un regista con il quale ho avuto la fortuna di lavorare nel passato e che trovo ancora oggi di altissimo livello.

Quindi, anche se questa Aida sarà all’aperto, anche se avremo i microfoni, sarà comunque un evento di portata intercontinentale che porterà la bellezza dell’Italia al di là degli oceani: noi portiamo Verdi, Zeffirelli, 400 persone che si spostano dall’Italia per questo allestimento. Partiranno da qui 28 container e in Australia ci aspettano circa 300 persone per poter allestire l’opera. Saremo 700 persone animate da un solo desiderio: rendere giustizia alla musica di Verdi e al suo talento».

Da alcuni anni lei è anche il direttore ospite principale del Teatro Real di Madrid dove quest’anno ha aperto la stagione con un’acclamata produzione dell’Otello di Verdi.

«Abbiamo avuto il tutto esaurito tutte le sere. Abbiamo avuto cast straordinari e lo spettacolo era elegante. Il pubblico ha risposto con grande calore».

A Madrid nei prossimi mesi che cosa dirigerà?

«A giugno/luglio dell’anno prossimo, dirigerò Trovatore. Posso anticipare solo che nella stagione successiva avrò altri due titoli, dei nostri grandi compositori del repertorio italiano: Puccini in apertura di stagione e poi un altro Verdi».

Cosa risponde quando la definiscono il miglior direttore del repertorio italiano nel mondo? In particolare di Puccini e Verdi?

«Rispondo che non è assolutamente vero. Però faccio del mio meglio per onorare questi grandi compositori, ma non lo faccio per accontentare il pubblico perché non avrebbe senso. Faccio il direttore d’orchestra perché sono mosso da una passione molto antica che non nasce da quando ho iniziato questa professione: nasce da quando ero bambino.
Già da piccolo il mio desiderio unico era di diventare un musicista, di essere un musicista. Poi c’è una fase del nostro cammino quando ci crediamo più potenti degli altri e pensiamo di aver capito tutto. E pensiamo di fare cose straordinarie, ma non è vero: ancora non le facciamo. Non le faccio neppure adesso, però quanto meno sono consapevole di non farle e allora mi impegno molto per ottenere i risultati migliori possibili e per onorare il compositore che dirigo. Questo lo posso dire con certezza».

Lei dice che già da bambino era certo di voler fare il musicista. Un “mestiere” insolito: nell’infanzia si prediligono professioni “eroiche” come l’astronauta, il pompiere, il supereroe. Quando ha capito di volersi dedicare alla musica? E poi, voleva essere musicista o proprio direttore d’orchestra?

«In verità, la musica non si sceglie. La professione dell’astronauta o del pompiere ti affascinano perché ne senti parlare dai grandi o perché le vedi in televisione. Per fare il musicista non hai bisogno d vedere nulla. Nessuno ti deve dire qualcosa o suggestionare con un racconto: la musica di cerca lei.

La musica ti cerca. Sei un bambino piccolo piccolo, ancora non sai parlare, non sai niente, ma riesci a comprendere il linguaggio della musica. É un linguaggio che ti parla direttamente, ti conquista, ti sceglie. La musica è una dea che sceglie i suoi sacerdoti e le sue sacerdotesse e non li sceglie in età adulta. Li sceglie tutti da bambini e da bambine: in questo senso, resti bambino tutta la vita».

Lei si ricorda in quale momento è stato scelto?

«Avrò avuto 5 o 6 anni. La scelta la identifico con un momento preciso: piangevo quando la mia mamma mi cantava le canzoncine da bambini. Lei non capiva perché piangessi: io piangevo di commozione. Mi commuoveva sentire le melodie.

Neanche il prete del mio paese natale, Bargecchia, una frazione di Massarosa, capiva: eppure io guardavo la tastiera dell’harmonium come se fosse un essere divino, soprannaturale. Per me quei tasti bianchi e neri conservano ancora quel senso di sacralità».

Ma se lei non avesse fatto il musicista, che cosa avrebbe fatto?

«Il musicista. Ora, forse direi il pittore, ma non avrei potuto diventare un artista diverso da un musicista perché la musica è talmente potente come linguaggio che non riesci a sottrarti. É una vocazione che non ha spiegazione razionale.

Io non ne posso fare a meno, anche quando sono a casa, nei periodi di riposo. Nel mio caso, è la musica composta da altri: non tutti, infatti, sono chiamati a scrivere la musica. Alcuni sono chiamati a diffonderla».

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