RAPOLANO TERME – “È stata imprevedibile, se l’avesse scritta e girata un regista di un film l’avrebbe studiata proprio così”. La voce di Milko Gennai, dopo l’impresa compiuta, quella di arrivare in quindici giorni e 4mila chilometri percorsi a colpi di pedale da Rovereto a Capo Nord, trasmette gioia ed emozione.

E poco importa se un po’ di raucedine e di raffreddore ogni tanto si affacciano al telefono. Sono i segni della battaglia, quelli dell’impresa ‘epica’ che ogni ciclista che si rispetti vorrebbe aver vissuto almeno una volta nella vita. Come la Cannes-Briancon del 1948, dove Gino Bartali recuperò sull’Izoard 20 minuti al leader Bobet; come nel 1969 quando Eddy MerKx si mangiò il Tourmalet e divenne per tutti il Cannibale; come il Galibier di Marco Pantani nel 1998 o per restare a casa nostra, la tappa del 2010 di Montalcino del Giro d’Italia tra fango, sterrati e pioggia. Milko Gennai l’impresa l’ha compiuta, insieme al suo compagno di viaggio Mario Zangrando.

Com’è stata quell’ultima tappa prima di salire alle rampe finali di Capo Nord?

“È stata una pedalata piacevole ma faticosa: la fatica dopo un po’ nemmeno la senti più. Eravamo andati regolari fino al penultimo giorno e invece è successo quello che avevamo cercato di scansare fino ad allora. Ci siamo trovati in mezzo al vento all’acqua. Chi va in bicicletta lo sa, se ti prende il tempaccio, in quel momento sei solo e dalla strada in qualche modo ti deve comunque togliere. Però, se ci ripenso adesso, è stata la ciliegina sulla torta: quelle difficoltà che impreziosiscono l’impresa”.

Com’è stato questo viaggio? Come te lo eri immaginato?

“Quando parto non immagino mai niente. Vado perché sono convinto di testa e convinto di sbrigarmela. La Scandinavia non la conoscevo per niente, la Germania poco: ero in terre sconosciute”.

Come si affronta un’impresa del genere dal punto di vista fisico e psicologico?

“Fisicamente mi preoccupo sempre poco considerato il fatto che sono quasi sempre in attività. Anche perché, non essendo un professionista, non puoi allenarti per fare 250 km al giorno. Io vado in biciletta perché mi diverto e non dirò mai vado in bici per allenarmi. Andandoci però mi alleno ed ero comunque fisicamente preparato”.

Quindi è una questione di testa?

“Quello che conta è la testa poi il fisico gli va dietro e credo che la mia testa siano ormai anni e anni che è abituata. Io mi fido di lei anche se poi la strada ti mette davanti situazioni che non hai mai ponderato. Ma mollare non è contemplato, non l’ho mai preso in considerazione. Semmai si studia il modo per superare l’ostacolo”.

Come te la sei cavata quell’ultimo giorno?

“È stata dura. Siamo partiti dalla mattina da un posticino bellino, sul fiume e già tirarsi fuori da quel cottage e buttarsi in strada con quel freddo e vento voleva dire che la testa c’era. Per strada il freddo stava vincendo. L’arrivo al primo punto di ristoro è stato drammatico perché abbiamo trovato chiuso. Stavamo pedalando in un quadro grigio, anche le piante sembravano grigie. E’ stato davvero il peggio momento della giornata perché senza mangiare non si pedala in bicicletta. Poi, una pedalata tira l’altra, ci siamo fatti forza, siamo andati avanti”.

E cosa è successo lungo la strada?

“Incredibilmente abbiamo trovato una tenda con un cartello con una scritta in inglese che recitava ‘ristoro veloce per bikers’. C’era un cavo elettrico che portava ad un bollitore dell’acqua con una caraffa di caffè solubile. Siamo entrati lì dentro, ci siamo fatti il caffè caldo e le mani hanno iniziato a riprendere. E’ stata come una scossa all’anima e siamo così arrivati al ristoro dopo a 60 km.  C’erano dei barattolini sigillati con la pasta semi cotta con un bollitore di acqua calda. Abbiamo mangiato due barattoli di quella pasta e siamo ripartiti”.

Una vera lotta per la sopravvivenza

“È stata una battaglia di nervi. Quando siamo arrivati all’ultimo avamposto e avevamo l’idea di fermarsi e fare l’arrivo la mattina dopo, ci siamo guardati se ne avevamo ancora e abbiamo deciso di chiuderla la sera stessa. Il vento portava via la bici dalle mani con gli ultimi 30 km che avevano un dislivello di 700 metri. Erano le 17 del pomeriggio. Ad un grill abbiamo mangiato un hot dog e una pasta e siamo risaliti in bici dritti fino all’ultima rampa con il vento che provava a buttarci per terra”.

Un’impresa che hai condiviso con il tuo compagno orai di avventure Mario Zangrando. Che ruolo ha avuto per te e tu per lui?

“Tanti nostri compagni di viaggio l’hanno fatta da soli e a loro dico ‘tanto di cappello’. Per me il fatto di essere stati in due, con la sintonia che abbiamo è stata una benedizione. Se in un momento manca uno c’è l’altro che riporta la tensione al livello giusto e noi siamo molto affiatati”.

Adesso siamo curiosi di saperlo: quale sarà la prossima avventura?

“La prossima te la ridico quando verrà fuori, non si programma mai. Accade per caso, ti ci cade l’occhio sopra. Il fatto che sia tutto organizzato è un trucco per costringerti a farla. Ci puoi andare anche senza organizzazione. Con il fatto che ti iscrivi, ti senti quasi costretto ad andare. La Londra Istanbul non era qualcosa di previsto e poi è successa. Capo Nord era in programma dal 2019 e l’abbiamo fatta adesso. Dipende dall’ispirazione che ti danno le cose. Funziona così. Il lavoro nostro è un altro”.

Cosa ti senti di dire alla fine di questa impresa?

“Il viaggio in bici è bello sempre anche quando vai a comprare il pane a 200 metri da casa. E’ sempre bello in tutti gli aspetti. La mia maggiore soddisfazione sarebbe che qualcuno prendesse ispirazione da questo mio viaggio per pedalare verso una meta che non è casa sua e poi alla fine fare ritorno a casa”.

E’ Capo Nord! Milko Gennai ce l’ha fatta. In 15 giorni ha concluso la sua epica avventura

 

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